Paradossi filosofici, i labirninti della mente…
Salve a tutti philosophy lovers, in questa nuova sezione potrete trovare alcuni tra i più belli e famosi paradossi della filosofia, varie aporie, antinomie filosofiche e non e tanto altro ancora… mi raccomando attenti a non perdervi nei labirinti della mente 🙄
Buona lettura a tutti!
- Un paradosso, dal greco παρα (contro) e δόξα (opinione), è una conclusione che appare inaccettabile perché sfida un’opinione comune: si tratta, infatti (secondo la definizione che ne dà Mark Sainsbury) di
“una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile”.
- Un antinomia (dal greco αντι, preposizione che indica una contrapposizione, e νομος, legge) è un particolare tipo di paradosso che indica la compresenza di due affermazioni contraddittorie, ma che possono essere entrambe dimostrate o giustificate. In questa situazione non è ovviamente possibile applicare il principio di non-contraddizione.
- Un aporia, dal greco ἀπορία (passaggio impraticabile, strada senza uscita), nella filosofia greca antica indicava l’impossibilità di dare una risposta precisa ad un problema poiché ci si trovava di fronte a due soluzioni che per quanto opposte sembravano entrambe apparentemente valide.
ELENCO:
“Paradosso di Platone e Socrate”
Platone è di guardia all’ingresso di un ponte che attraversa un fiume. Arriva Socrate e gli chiede di lasciarlo passare.
Platone gli risponde: “Se il prossimo enunciato che dirai è vero, ti lascerò passare; ma se è falso, ti getterò in acqua”.
Socrate ci pensa e dice: “Stai per gettarmi in acqua”.
Se Platone non lo getta in acqua, Socrate ha detto il falso e quindi dovrebbe essere gettato in acqua; ma se viene gettato in acqua Socrate ha detto il vero, e allora non dovrebbe essere gettato in acqua.
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“Paradosso di Russell“
Il paradosso di Russell (o paradosso del barbiere) è considerato una delle più celebri antinomie della storia del pensiero logico e matematico, formulata da Bertrand Russell, filosofo e matematico inglese, nel 1918, a seguito di alcune domande poste già nel 1901. La sua scoperta ebbe ampia risonanza all’interno della comunità di studiosi che agl’inizi del Novecento si occupavano della sistemazione dei fondamenti della matematica.
Si tratta di un’antinomia più che di un paradosso: un paradosso è una conclusione logica e non contraddittoria che si scontra con il nostro modo abituale di vedere le cose, l’antinomia è invece una contraddizione. Russell arriva ad una contraddizione.
Il concetto può essere espresso, non formalmente, nei termini seguenti: “In un villaggio c’è un unico barbiere. Il barbiere rade tutti (e solo) gli uomini che non si radono da sé. Chi rade il barbiere?”. Si possono fare due ipotesi:
• il barbiere rade se stesso, ma ciò non è possibile in quanto, secondo la definizione, il barbiere rade solo coloro che non si radono da sé;
• il barbiere non rade se stesso, ma anche ciò è contrario alla definizione, dato che questa vuole che il barbiere rada tutti e solo quelli che non si radono da sé, quindi in questa ipotesi il barbiere deve radere anche se stesso.
In entrambi i casi si giunge ad una contraddizione.
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“Paradossi di Zenone”
I paradossi di Zenone ci sono stati tramandati attraverso la citazione che ne fa Aristotele nella sua Fisica. Zenone di Elea, discepolo ed amico di Parmenide, per sostenere l’idea del maestro, che la realtà è costituita da un Essere unico e immutabile, propose alcuni paradossi che dimostrano, a rigor di logica, l’impossibilità della molteplicità e del moto, nonostante le apparenze della vita quotidiana.
Le argomentazioni di Zenone costituiscono forse i primi esempi del metodo di dimostrazione noto come reductio ad absurdum o dimostrazione per assurdo. Sono anche considerate un primo esempio del metodo dialettico, usato in seguito dai sofisti e da Socrate.
Oggi non si attribuisce valore fisico alle argomentazioni di Zenone, ma la loro influenza è stata molto importante nella storia del pensiero filosofico e matematico.
I paradossi di Zenone restano anche un utile esercizio di logica, per riflettere sulla modalità di costruzione dei ragionamenti umani. Si ricordano due paradossi contro il pluralismo e quattro contro il movimento.
Paradossi contro il pluralismo
Primo paradosso
Il primo paradosso, contro la pluralità delle cose, sostiene che se le cose sono molte esse sono allo stesso tempo un numero finito e un numero infinito: sono finite in quanto esse sono né più né meno di quante sono, e infinite poiché tra la prima e la seconda ce n’è una terza e così via.
Secondo paradosso
Il secondo paradosso invece sostiene che se queste unità non hanno grandezza, le cose da esse composte non avranno grandezza, mentre se le unità hanno una certa grandezza, le cose composte da infinite unità avranno una grandezza infinita.
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“Paradosso di Achille e la tartaruga”
Il paradosso di “Achille e la Tartaruga” è il più famoso dei Paradossi di Zenone. È stato proposto nel quinto secolo avanti Cristo da Zenone di Elea, che intendeva difendere le tesi del suo maestro Parmenide, che sosteneva che il movimento non è altro che illusione.
La corsa della tartaruga
Una delle descrizioni più famose del paradosso è quella dello scrittore argentino Jorge Luis Borges [1]:
Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all’infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla
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“Paradosso di Protagora“
Il paradosso dell’avvocato (anche detto paradosso di Protagora) è un paradosso citato da Aulo Gellio e secondo la tradizione riferito ad elaborazioni della scuola stoica.
Secondo questa versione, Protagora avrebbe formato agli studi di legge, come istitutore, un giovane promettente, Evatlo (Euathlus), dal quale ebbe solo la metà di quanto richiesto per le lezioni e col quale stabilì che il resto sarebbe stato saldato dopo che questi avesse vinto la sua prima causa.
Ma Evatlo non cominciò la professione di avvocato, anzi si diede alla politica, e non avendo vinto la sua prima causa poiché non ne aveva mai fatte, Protagora non veniva pagato; quest’ultimo lo convenne dunque in giudizio per essere saldato del prezzo delle sue lezioni.
Il giovane decise di difendersi da solo, divenendo perciò avvocato di sé medesimo, e creando questa situazione di indeterminatezza:
• secondo Protagora:
o se Evatlo avesse vinto, avrebbe dovuto pagarlo in base all’accordo, perché avrebbe vinto la sua prima causa;
o se Evatlo avesse perso, avrebbe dovuto pagarlo comunque per effetto della sentenza.
• secondo Evatlo:
o se Evatlo avesse vinto, non avrebbe dovuto pagare Protagora per effetto della sentenza;
o se Evatlo avesse perso, non avrebbe dovuto pagare Protagora perché in base all’accordo non aveva vinto la sua prima causa.
Il paradosso è spesso citato a fini umoristici per segnalare la “gara di speciosità” sempre corrente fra le categorie forensi e quelle della politica.
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“Pardosso del Mentitore”
Nella logica il paradosso del mentitore è descritto come: data una proposizione autonegante come “Questa frase è falsa”, nessuno riuscirà mai a dimostrare se tale affermazione sia vera o falsa;
• se infatti fosse vera, allora la frase non sarebbe veramente falsa (la verità della proposizione invalida la falsità espressa nel contenuto della proposizione).
• se invece la proposizione fosse falsa, allora il contenuto si capovolgerebbe (è come se dicesse “Questa frase è vera”) quando abbiamo appena affermato il contrario.
Il paradosso del mentitore: versione originale
Secondo alcuni, quello che oggi chiamiamo paradosso nacque con una nota affermazione di Epimenide di Creta (VI secolo a.C.), il quale, cretese egli stesso, ebbe a dire che «tutti i Cretesi sono bugiardi»; essendo come detto egli medesimo fra questi, anch’egli avrebbe dovuto conseguentemente essere bugiardo e perciò l’affermazione avrebbe dovuto essere falsa poiché proveniente da un bugiardo. Ma se così non fosse stato, se cioè Epimenide fosse stato un cretese che, almeno in questa occasione, non diceva il falso, l’affermazione sarebbe risultata ugualmente falsa poiché non tutti i cretesi erano bugiardi.
Non è tuttavia noto se l’affermazione di Epimenide fosse intesa come un paradosso del mentitore. Inoltre, la proposizione, così come è formulata, non è un paradosso: se infatti esiste almeno un cretese che dice la verità, allora l’affermazione di Epimenide è falsa senza portare ad alcuna contraddizione. Non conosciamo il contesto in cui Epimenide fece questa affermazione; fu solo più tardi che questa fu di nuovo citata (per esempio nella Lettera di San Paolo a Tito 1,12-13) e presentata come un paradosso del mentitore.
Diogene Laerzio[1] ha attribuito l’ideazione del paradosso ad Eubulide di Mileto (IV secolo a.C.), il quale riformulò l’affermazione di Epimenide dicendo «ψευδόμενος» (pseudòmenos), «io sto mentendo». Da notare in primo luogo che la frase è «io sto mentendo», e non «io sono bugiardo», nel senso che «quello che sto dicendo in questo momento è una menzogna».
Con Eubulide si ripropone lo stesso dilemma di Epimenide: può essere vera la frase di uno che afferma «io sto dicendo il falso»? La frase di Eubulide non può essere vera, ma non può essere neanche falsa, perché c’è un elemento nuovo rispetto a «tutti i Cretesi mentono».
L’elemento nuovo è l’autoriferimento: Eubulide sta parlando di se stesso, cioè sta affermando di se stesso che mente, e questo non può essere né vero né falso.
Il paradosso del mentitore: elaborazioni successive
Dal paradosso del mentitore sono derivate elaborazioni diversificate di molti autori attraverso tutti i secoli, ed anche attualmente l’argomento è assai discusso.
Tra le più note riformulazioni del paradosso del mentitore vi sono:
• quella di Aristotele (Confutazioni sofistiche (XXV)), il quale propose due quesiti di analoga contraddittorietà:
o è possibile giurare di rompere il giuramento che si sta prestando?
o è possibile ordinare di disobbedire all’ordine che si sta impartendo?
• quella di Diogene Laerzio (II secolo d.C.): un coccodrillo ghermisce un bambino che gioca sulle rive del Nilo; la madre del piccolo implora il coccodrillo di restituirle il figlio, ma il coccodrillo fa la seguente proposta: “Se indovini quello che farò, ti restituirò il bambino”. La madre allora dice al coccodrillo: “Credo che mangerai il piccolo”. Se la madre ha detto il vero, se ha cioè indovinato che il coccodrillo vuole mangiare il bambino, allora in questo caso il coccodrillo ha promesso di restituire il bimbo. Ma se il coccodrillo restituisce il bimbo, significherebbe che non lo ha mangiato, e quindi la donna non avrebbe indovinato e non potrebbe salvare la vita del figlio. RISULTATO: in tutti i casi, se la madre dice “tu lo mangerai”, non potrà mai riavere il figlio e il coccodrillo non potrà mai mantenere la promessa di restituirlo.
• quella di Giovanni Buridano, o meglio Jean Buridan, filosofo francese morto di peste a Parigi nel 1358 o 1360. Fino a quell’epoca, durante la Scolastica, si era sempre pensato che i problemi logici derivanti dal paradosso del mentitore derivassero dal carattere di autoreferenza. Buridano dimostrò che il problema non era l’autoreferenza, elaborando un paradosso nel quale l’autoriferimento era per così dire spezzato in due. Egli immaginò due protagonisti, Socrate e Platone, ciascuno dei quali pronuncia una sola frase. Socrate dice “Platone dice il falso”; Platone dice “Socrate dice il vero”. Vista isolatamente, ciascuna delle due frasi non è affatto paradossale, ma la loro congiunzione lo diventa. Se Socrate dice effettivamente il vero, allora Platone mente davvero e di conseguenza (contraddicendo alla premessa) Socrate dice il falso. Non è possible che la frase di Socrate sia vera e poi arrivare alla conclusione che è falsa.
• quella elaborata da Miguel de Cervantes nel Don Chisciotte (1615), dove si narrava di Sancho Panza che divenne governatore di Barataria e si trovò a dover decidere sul caso accaduto ad un militare, messo di guardia su un ponte con l’ordine di impiccare tutti coloro che mentivano circa il motivo per cui volevano oltrepassare il ponte stesso. Il militare raccontava che un giorno era arrivato un tale cui fu chiesto perché voleva passare il ponte. A questa domanda, il tale rispose: “voglio attraversare il ponte solo per essere impiccato in base alla legge”. Se fosse vero che costui voleva farsi impiccare, allora aveva detto la verità e quindi non doveva essere impiccato. Se stesse mentendo, e poi fosse stato impiccato, avrebbe detto la verità e avrebbe dovuto essere lasciato libero.
• quella di Philip Jourdain, che nel 1913 riformulò il paradosso di Buridano eliminando il riferimento a personaggi celebri, ponendo semplicemente due affermazioni: “la frase seguente è falsa” e “la frase precedente è vera”.
• quella di John Cage, famoso musicista contemporaneo, che ha scritto un pezzo per pianoforte intitolato Composizione 4’33”, più famoso come Silenzio perché si esegue sedendosi dinanzi al pianoforte senza suonare nulla. Il messaggio dell’artista riguarda l’inesistenza del silenzio, perché anche senza suonare nulla, non c’è il silenzio assoluto ma si sentono dei rumori (gente in sala che parla, tossisce, ecc.). Da un punto di vista logico, il messaggio di Cage è non ho niente da dire e lo sto dicendo: questa è l’ennesima versione del paradosso del mentitore, perché chi non ha niente da dire sta zitto.
Soluzioni del paradosso del mentitore
La soluzione data da Crissipo dice semplicemente che il paradosso è il rovesciamento del buon senso: ci sono frasi delle quali «non si deve dire che esse dicono il vero e (neppure) il falso; né si deve congetturare in un altro modo, cioè che lo stesso (enunciato) esprima simultaneamente il vero e il falso, bensì che esse sono completamente prive di significato».
La soluzione prospettata da Aristotele è la seguente: le frasi paradossali si fondano sulla confusione tra uso e menzione. Quando si dice “io sto mentendo”, si sta usando la frase, nel senso che si tratta di un paradosso di tipo autoreferenziale, catalogato tra gli insolubilia; chi enuncia una frase insolubile, non dice letteralmente nulla e pertanto la proposizione (o meglio, la pseudoproposizione) deve essere semplicemente cassata.
Nel Medioevo, una proposta di soluzione fu avanzata da Guglielmo di Ockham (1285-1350). Dal momento che la cassatio di Aristotele non forniva una soluzione concreta, egli introdusse la distinzione tra linguaggio e metalinguaggio. Solo le frasi autoreferenziali mescolano i due livelli in uno solo, perché dire “io sto mentendo” è una frase che si pone nel metalinguaggio (per quanto riguarda il verbo mentire, il cui concetto trova spiegazione non nella frase stessa ma in un altro livello), ma è espressa mediante il linguaggio.
La proposta di soluzione di Buridano fu dettata dall’intuizione della logica temporale: un’affermazione non è vera o falsa in assoluto, ma solo relativamente ad un certo momento storico. Mentre non è possibile che una frase possa essere vera o falsa nello stesso tempo, essa può esserlo in tempi diversi: Basterebbe dire “Platone dirà il falso quando pronuncerà la prossima frase” e “Socrate disse il vero quando pronunciò la frase precedente”.
Anche la logica presenta una soluzione, senza dover ricorrere a distinzioni filosofiche, grazie alle logiche a più valori, grazie ad un insieme di valori di verità più ampio rispetto al “vero o falso” della logica aristotelica: per esempio nella logica fuzzy, dove il valore di verità può variare tra 0 e 1, tali frasi hanno un valore di verità pari a 0,5.
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“Antinomie kantiane”
Le antinomie kantiane sono quattro coppie di affermazioni contrarie (tesi/antitesi); vengono anche definite come paradossi logici, anche se tale dicitura non è del tutto precisa. In ogni antinomia o coppia di affermazioni non è possibile stabilire se sia vera la tesi o l’ antitesi, e ciò distingue le antinomie dalle normali coppie di contrari in cui è possibile individuare il vero e il falso (il sole é caldo/é freddo); vengono trattate nella Critica della ragion pura di Immanuel Kant e più precisamente nella critica alla Cosmologia Razionale contenuta nella Dialettica Trascendentale. Antinomia deriva dal greco αντινομια, composto di αντι “contro” e un derivato di “legge”
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1ª antinomia
• Tesi: il mondo ha un inizio nel tempo e, nello spazio, è chiuso dentro limiti.
• Antitesi: Il mondo è infinito sia nel tempo che nello spazio.
Nella dimostrazione Kant fa riferimento alla categoria della qualità. Anche nella corrente cosmologia, la tesi è vera se accettiamo la teoria del Big Bang, invece l’antitesi vale in alcune altre ipotesi cosmologiche, ad esempio nel modello dello Stato Stazionario o in alcuni modelli di universo inflazionario. Anche nel caso del Big Bang, il volume dell’Universo può essere finito, ma non ci sono né limiti né confini, come sulla superficie di una sfera: come lì il confine è nella terza dimensione e non sulla superficie, il confine dello spaziotempo è nella quarta dimensione e noi non lo percepiamo.
2ª antinomia.
• Tesi: ciascuna cosa è composta da parti semplici che costituiscono altre cose composte da parti semplici.
• Antitesi: non esiste nulla di semplice, ogni cosa è complessa.
Nella dimostrazione Kant fa riferimento alla categoria della quantità. Anche qui notiamo come la fisica delle particelle sia ancora alla ricerca dei costituenti ultimi della materia, e tuttavia anche questi, per via delle proprietà della meccanica quantistica, possono essere interpretati come sovrapposizioni di più stati o particelle. Altri modelli, come la teoria delle stringhe ritornano alla teoria del continuo, ritenendo le particelle “proiezioni” in 3 dimensioni delle stringhe, definite continue, che ne hanno invece 10 o 11. Altre teorie ancora, come la gravitazione quantistica a loop, ritengono invece che esistano granelli indivisibili (quanti) persino dello spaziotempo.
3ª antinomia
• Tesi: La causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui possono essere derivati tutti i fenomeni del mondo. È necessario ammettere per la spiegazione di essi anche una causalità per la libertà.
• Antitesi: Nel mondo non c’è nessuna libertà, ma tutto accade unicamente secondo leggi della natura.
Nella dimostrazione Kant fa riferimento alla categoria della relazione. Anche qui, sebbene la teoria delle variabili nascoste nella meccanica quantistica sia ormai screditata, e quindi varrebbe la tesi, esistono dimostrazioni di come il comportamento quantistico possa emergere da sistemi complessi e non lineari, anche se nessuno sa come darne prova sperimentale.
4ª antinomia
• Tesi: esiste un essere necessario che è causa del mondo.
• Antitesi: non esiste alcun essere necessario, né nel mondo né fuori dal mondo che sia causa di esso.
Nella dimostrazione Kant fa riferimento alla categoria della modalità. Anche qui, i lavori di John Conway sui numeri surreali e la prova ontologica di Kurt Gödel sono esempi di come sia possibile “inserire matematicamente” una causa prima. L’idea di causa prima nelle religioni viene fortemente sminuita.
“Pardosso del nessuno”
Una volta non c’era nessuno, ma chi l’avrebbe mai detto?Nessuno, appunto: siccome non c’era nessuno, nessuno diceva niente. Così questa storia che non c’era nessuno era molto strana. Era vera, senz’altro, perchè in effetti non c’era nessuno, ma nessuno poteva dirla.
Prima o poi ci fu qualcuno, ma le stranezze non erano finite. Quando qualcuno cominciò a raccontare la storia che una volta non c’era nessuno, gli altri aggrottarono la fronte e sollevarono enormi punti interrogativi. Perchè come si faceva a sapere che una volta non c’era nessuno? Quando non c’era nessuno, non c’era nessuno a saperlo, e il momento che ci fu qualcuno non si poteva certo dire che non ci fosse nessuno. Così ancora una volta la storia era vera ma nessuno poteva dirla.
Adesso tutti dicono che c’è sempre stato qualcuno. Non è vero ovviamente, perchè una volta non c’era nessuno. Ma è tutto quel che si può dire.
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“Paradosso sull’io”
C’ero una volta io, ma non andava bene. Mi capitava di incontrare gente per strada e di scambiarci due parole, e per un pò la conversazione era simpatica e calorosa, ma arrivava sempre il momento in cui mi si chiedeva “Chi sei?” e io rispondevo “Sono io”, e non andava bene. Era vero, perchè io sono io, è la cosa che sono di più, e se devo dire chi sono non riesco a pensare a niente di meglio. Eppure non andava bene lo stesso: l’altro faceva uno sguardo imbarazzato e si allontanava il più presto possibile. Oppure chiamavo qualcuno al telefono e gli dicevo “Sono io”, ed era vero, e non c’era un modo migliore, più completo, più giusto di dirgli chi ero, ma l’altro imprecava o si metteva a ridere e poi riagganciava.
Così mi sono dovuto adattare. Prima di tutto mi sono dato un nome, e se adesso mi si chiede chi sono rispondo “Giovanni Spadoni”. Non è un granchè, come risposta: se mi si chiedesse chi è Giovanni Spadoni probabilmente direi che sono io. Ma, chissà perchè, dire che sono Giovanni Spadoni funziona meglio. Funziona tanto bene che nessuno mai mi chiede chi è Giovanni Spadoni: si comportano tutti come se lo sapessero.
Invece di chiedermi chi è Giovanni Spadoni gli altri mi chiedono dove e quando sono nato, dove abito, chi erano mio padre e mia madre. Io gli rispondo e loro sono contenti. E forse sono contenti perchè credono che io sia quello che è nato nel posto tale e abita nel posto talaltro, e che è figlio di Tizio e di Caia e padre di questo e di quello. Il che non è vero, ovviamente: non c’è niente di speciale nel posto tale o talaltro, o in Tizio e Caia. Se fossi nato altrove, in un’altra famiglia, sarei ancora lo stesso, sarei sempre io: è questa la cosa che sono di più, la cosa più vera e più giusta che sono. Ma questa cosa non interessa a nessuno: gli interessa dell’altro, e quando lo sanno sono contenti.
Una volta c’ero io, e non andava bene.
Adesso c’è Giovanni Spadoni, che è nato a X e vive a Y e così via. E io non sono niente di tutto questo, ma le cose vanno benissimo.
Sillogismi
Il sillogismo (dal greco συλλογισμός /syllogis’mos/, formato da συν “insieme” e λογισμός “calcolo” – ragionamento concatenato) è un tipo di ragionamento dimostrativo teorizzato e utilizzato per la prima volta da Aristotele, in base al quale da due giudizi detti premesse si ottiene un altro giudizio detto conclusione. Ci sono dunque tre termini “maggiore” (che funge da soggetto nella conclusione), “medio” e “minore” (che nella conclusione funge da predicato) classificati in base al rapporto contenente – contenuto, giunge ad una conclusione collegando i suddetti termini attraverso brevi enunciati (premesse).
Premessa maggiore + Premessa minore = Conclusione
La forma di sillogismo più importante è il sillogismo categorico
Le proposizioni che compongono un sillogismo categorico possono essere:
• universali affermative (“Tutti gli A sono B”),
• universali negative (“Nessun A è B”),
• particolari affermative (“Qualche A è B”),
• particolari negative (“Qualche A non è B”).
La posizione del termine medio nelle due premesse determina la figura del sillogismo: Aristotele ne classificò tre, gli scolastici ne aggiunsero una quarta. La forma delle proposizioni contenute nel sillogismo ne determina il modo; la filosofia scolastica classificò i modi del sillogismo adoperando la prima o la seconda vocale (rispettivamente se universale o particolare) dei verbi affirmo e nego.
Per esempio:
• (premessa maggiore) Tutti gli uomini sono mortali
• (premessa minore) Tutti i greci sono uomini
• (conclusione) Tutti i greci sono mortali
Nell’esempio in questione, uomo, mortale e greco sono i tre termini rispettivamente medio, maggiore e minore.
Un secondo esempio più significativo può essere:
• (premessa maggiore) Ogni animale è mortale
• (premessa minore) Ogni uomo è animale
• (conclusione) Ogni uomo è mortale
Il termine medio è l’elemento grazie al quale avviene l’unione e funge da connessione fra gli altri due; questo perché il termine medio(l’animale)da una parte è incluso nel termine maggiore(mortale)e dall’altra include in se il termine minore(uomo).
Un sillogismo è considerato valido se un qualsiasi ragionamento di quella forma è sempre valido. Quindi il sillogismo:
• Alcuni uomini sono italiani
• Qualche uomo è biondo
• Quindi qualche italiano è biondo,
non è valido anche se tutte le sue proposizioni sono vere, perché il corrispondente sillogismo, diverso ma della stessa forma:
• alcuni esseri viventi sono uomini
• alcuni esseri viventi sono elefanti
• quindi alcuni uomini sono elefanti,
non conclude correttamente.
ALRTI ESEMPI DI SILLOGISMI:
“Se tutti i filosofi sono onesti
e se tutti i filosofi sono uomini
allora alcuni uomini sono onesti.”
“Se tutti i cavalli sono quadrupedi
e se tutti i buoi sono quadrupedi
allora alcuni cavalli sono buoi.”
“Se nessun rettile ha le zampe
e se i coccodrilli sono rettili
allora nessun coccodrillo ha le zampe.”
“Se tutti gli dei sono immortali
e se nessun uomo è un dio
allora nessun uomo è immortale.”
“Se tutti gli dei sono immortali
e se nessun uomo è immortale
allora nessun uomo è un dio.”
Citando Encarta.