Seneca
LA SERENITÀ
MONDADORI
La vera, grande filosofia, come sappiamo, fu essenzialmente, per non dire totalmente, greca. La ricerca dell’origine (arché), delle cause prime dell’Essere, l’analisi delle categorie che governano la natura e la mente umana trovarono il loro fecondo crogiuolo in quella sorta di "paradiso del pensiero" che fu la Grecia dell’età pre-ellenistica, dal VII al V secolo a.C. Si trattò di una filosofia prevalentemente metafisica, interessata cioè in primo luogo all’oltre-natura, agli insondabili misteri del divino (Eraclito l’"oscuro" sostiene che la verità "ama nascondersi", Platone ipotizza un mondo "iperuranico" preesistente al nostro), ma non priva di interesse per il mondo reale (come in Aristotele e i presocratici, che circoscrivono la loro indagine all’ambito del visibile e del concreto); né si può dire che venga trascurata la sfera etica, quella attinente ai costumi dell’uomo e alla sua moralità (basti pensare a Socrate, per citare colui che rappresenta meglio questo indirizzo). Tutto ciò insomma che il pensiero (la theoría) può elaborare sull’umano e il divino trova espressione nei grandi filosofi dell’antica Grecia.
E i Romani? Con tutto il rispetto per la civiltà della caput mundi e della domina gentium, è doveroso ricordare che una filosofia romana autonoma non esiste. In questo popolo di agricoltori, di combattenti e legislatori non viene concesso grande spazio alla dimensione contemplativa: –solo grazie all’opera di isolati scrittori outsider (come Lu–crezio) o di intellettuali aristocratici filoellenici (come gli Scipioni) si afferma, sempre piuttosto faticosamente, una qualche forma di pensiero, che riprendendo concetti del mondo greco li adatta a una mentalità essenzialmente pragmatica. Disinteressata alla metafisica, la "filosofia" romana si limita dunque a filtrare i contenuti di due correnti greche, lo stoicismo e l’epicureismo: la prima, che esalta il dovere e gli interessi della collettività, riscuote l’approvazione di conservatori e benpensanti, la seconda – volta al perseguimento del piacere – viene guardata dai più con sospetto, quel sospetto riservato del resto a tutta la cultura non romana, considerata "stravagante" o non moralmente costruttiva per il vir detentore della vis e della virtus. Sono sempre i mores (antiqui) a costituire il punto di riferimento della romanità: quei costumi antichi, appunto, su cui secondo Ennio si basava lo stato romano. L’obiettivo primario della spiritualità romana non può che essere un modello di sapienza "morale", l’unica ricerca che può interessare i Romani cives è quella rivolta ad bene beateque vivendum in una forma di vita che riesca a contemperare i vantaggi del singolo con quelli della comunità: un’indagine che evidenzi i modi, e addirittura le tattiche, per "vivere meglio" l’hic et nunc della stagione terrena.
In tale direzione si muove l’opera di Seneca, nell’intento di garantire all’uomo del suo tempo – e di ogni tempo – la "tranquillità dell’animo", quello status che la lingua greca chiamava euthymía, la condizione di serenità interiore in cui si è governati dal "buon demone"; il traguardo psicologico che gli epicurei chiamavano atarassía, ovvero "assenza di turbamento", ponendo l’accento sulla libertà (individuale) dalle passioni "negative" che corrompono l’animo anziché fortificarlo, ma in fondo anche quello stato di "imperturbabilità" chiamato dagli stoici aponía: l’assenza di dolore derivante dalla capacità di dominare il dolore stesso, conformemente ai dettami di un pensiero che esalta sopra ogni valore quello della forza d’animo.
L’indagine di Seneca, l’unico vero filosofo o pensatore della latinità, ha sempre come oggetto i costumi umani e le umane debolezze. Le domande che egli si pone sono per molti versi le stesse dei grandi poeti di tutti i tempi, in primis Leopardi: perché l’uomo soffre? Qual è il suo destino? Che senso ha il suo vagare su questa terra? Ma, mentre i poeti non sanno, e non vogliono, trovare le risposte, Seneca – come i filosofi, come gli scienziati e i religiosi – ha la precisa intenzione di indicare una strada al "pastore errante"; e la strada è quella della riflessione, dell’autoanalisi, una sorta di "meditazione sistematica" che, abituando il singolo individuo a una conoscenza profonda di sé e dei suoi simili, nonché dei meccanismi che muovono l’universo, possa altresì difenderlo dai colpi della sorte tanto spesso avversa, facendogli raggiungere il traguardo catartico del non concuti (non essere scosso) e la sospirata "tranquillità dell’animo".
Proprio così s’intitola il più convincente e coinvolgente dialogo filosofico di Seneca: De tranquillitate animi; e possiamo a tutti gli effetti considerarlo un prezioso esempio di psicoanalisi ante litteram. I due interlocutori sono, come accade spesso nel genere della diatriba classica, un maestro e un discepolo: il maestro è ovviamente Seneca, e il discepolo il giovane Sereno, che, contrariamente a quanto farebbe supporre il suo nome, si trova in uno stato di profonda crisi. Come la stragrande maggioranza dei giovani d’ogni tempo (ma, in particolare, come tutti o quasi i giovani d’oggi) non sa cosa vuole, o meglio, non sa "decidere" la direzione della sua vita, oscillando fra convinzioni di natura teorica e difficoltà nel metterle in pratica. Questa debolezza della volontà, questa scarsa chiarezza, non è disgiunta da una sensibilità acuta ed esigente, nonché da un’estrema onestà spirituale: in altri termini, Sereno vive dolorosamente il disagio di chi "sa", o è convinto di sapere, che cosa sia il bene ma "agisce" contro il bene, comprende cosa "sarebbe giusto" fare, ma non riesce a realizzare quell’obiettivo (Scio bona proboque, deteriora sequor: "Conosco il meglio, ed al peggior m’appiglio").
È una malattia molto attuale, quella da cui è affetto Sereno: vuole la serenità, e si lascia ingannare dai tentacoli del falso piacere che alla serenità non conduce; aspira con tutto se stesso alla realizzazione del proprio io, e si lascia condizionare dagli pseudobisogni che lo alienano, che a lungo andare fanno di lui un automa; desidera più d’ogni cosa amare ed essere amato, ma non sentendosi in armonia con se stesso non riesce a esserlo neanche con gli altri.
La condizione psicologica in cui il nostro giovane si trova è molto prossima alla nevrosi, al "male di vivere" tanto diffuso nella società contemporanea; e in effetti non esiste definizione più calzante dell’inquietudine moderna di quella proposta da Seneca più di venti secoli fa: volutatio animi nusquam residentis. Alla modernità della sua analisi si accompagna, in modo quasi impressionante, la modernità del linguaggio: se pensiamo che, per definire lo stato di perenne insoddisfazione non solo di Sereno ma di tutti gli animi insicuri a lui simili, il "terapeuta-filosofo" usa l’espressione infesta levitas, che significa alla lettera "insostenibile leggerezza", quel senso di sgradevole inanità, di sottile inappagamento di chi sperimenta continui cambiamenti ma non riesce a colmare il vuoto interiore ("mutano i cieli sotto i quali ti trovi, ma non la tua situazione interiore" poiché "sono con te le cose da cui cerchi di fuggire", tecum sunt quae fugis). L’uomo contemporaneo è esattamente l’uomo di cui parla Seneca quando allude all’incapacità di sopportare a lungo un qualsiasi luogo o situazione, né la fatica né il piacere, né se stesso né niente.
Tematiche analoghe sono quelle trattate nel De vita beata, uno scritto dedicato al fratello Gallione – in cui è ampiamente ribadito il concetto di indissolubilità del benessere spirituale dalla virtù – e in gran parte delle centoventiquattro Epistulae ad Lucilium, lettere di contenuto filosofico e psicologico indirizzate a un altro pupillo, forse quello più amato, in cui si approfondisce il concetto di insoddisfazione e di disagio esistenziale.
Seneca individua una terapia per la cura di questi mali? Certamente, altrimenti che terapeuta sarebbe? E anche la terapia che illustra, con lodevole chiarezza, presenta tratti in comune con qualche corrente di pensiero del nostro tempo e addirittura con metodologie oggi molto (ma mai abbastanza, o non sempre nel verso giusto) praticate e coltivate: l’invito a ritirarsi a lungo in se stessi, a non affaticarsi inutilmente intorno a "oggetti vani", a evitare ogni forma d’ipocrisia in una "cura vigile e continua" a vantaggio dell’armonia interiore non è anche l’invito della filosofia zen, dello yoga e di ogni terapia di meditazione?
L’unico possibile remedium al turbamento di Sereno, di Gallione, di Lucilio – e di tutti coloro che anche nel Duemila vogliono essere "sereni" – è un esercizio di sano e costante "disinquinamento" dal morbo peggiore che possa colpire l’anima: il fraintendimento fondamentale in cui cadiamo quando ci sembra importante, addirittura essenziale, ciò che è effimero e transitorio, ciò di cui dobbiamo far uso restando intimamente liberi; quando perdiamo di vista l’unica meta cui dobbiamo tendere per giovare a noi stessi e agli altri: il benessere spirituale.
Una ricerca lenta e faticosa, in cui ci aiuta molto, forse nel modo più sottilmente edificante, proprio la lettura dei grandi maestri del pensiero. Filosofi non dell’astrazione ma della vita: guide solerti, immortali custodi del nostro quotidiano cammino.
Silvio Raffo
Lucio Anneo Seneca, lo scrittore più moderno della letteratura latina, nasce a Cordova in Spagna nel 4 a.C.; la sua è una famiglia colta, di rango equestre. Come è di norma nei ceti elevati, viene condotto a Roma per la sua formazione retorica, ma si sente subito attratto dagli studi filosofici, in special modo di orientamento stoico. La gracilità del fisico e la grave forma d’asma di cui soffre ancor giovane lo portano a soggiornare per qualche tempo in Egitto da una zia materna. Tornato a Roma e divenuto ben presto un brillante oratore del foro, suscita l’invidia di Caligola che vorrebbe addirittura eliminarlo ma poi lo risparmia ritenendolo prossimo alla morte per la debolezza della sua costituzione. Vittima di un intrigo politico sotto l’impero di Claudio, viene condannato a un ingiusto esilio in Corsica, dove rimane per otto anni, fino al 49, anno in cui è da collocare l’evento centrale della sua vita: l’incarico che riceve da Agrippina, madre del futuro imperatore Nerone, di provvedere all’educazione del figlio dodicenne. È lei a farlo rientrare in Roma dall’esilio, unicamente allo scopo di avvalersi del retore-filosofo come complice per domare l’irrequieto fanciullo; e a quest’opera di educatore Seneca si dedica con appassionato fervore, riuscendo però solo parzialmente a contenere la smania di dominio e di protagonismo del suo discepolo. C’è chi afferma che anzi, lasciandosi soggiogare dal suo fascino, sia stato suo complice nell’uccisione di Agrippina.
Molte opere di Seneca si possono considerare filosofiche, segnatamente quelle che si conoscono come Dialogorum Libri, dieci brevi trattati che costituiscono una sorta di vademecum per conseguire il miglior livello di vita possibile, tenendo sempre presente il concetto di "coscienza etica" e il termine ineludibile della morte: due di questi dialoghi sono dedicati appunto a Nerone, il De clementia direttamente e il De beneficiis in modo indiretto; altri due all’amato discepolo Sereno, il De otio e il De tranquillitate animi, che è forse il suo capolavoro. Altri titoli illuminanti: De constantia sapientis, De brevitate vitae, De ira e De vita beata (questi ultimi due dedicati al fratello Gallione). Scrive anche nove tragedie (otto di argomento greco, sicuramente sue, una, di incerta attribuzione, di argomento romano), opere di genere satirico (la famosa Zucchificazione, in cui ridicolizza ferocemente l’imperatore Claudio) e di argomento scientifico (Naturales quaestiones), ma la summa del suo pensiero filosofico-esistenziale è da individuarsi nelle 124 Epistulae ad Lucilium, altro amatissimo discepolo.
Il suo stile è vivacemente personale, in contrasto col modello ciceroniano: a caratterizzarlo sono periodi brevi, frequenti cambiamenti di costruzione del periodo (la famosa variatio), procedere nervoso della frase, e una certa tendenza all’omissione (ellissi): tutto ciò lo rende moderno anche nella forma espressiva.
La sua vita alla corte di Nerone lo espone continuamente a rischi e a conflitti interiori: anch’egli, come il Sereno del De tranquillitate, è assalito da angosciosi interrogativi, il primo dei quali è se sia meglio continuare a prender parte alla vita politica (anche nell’impossibilità di far trionfare il bene) o ritirarsi a vita privata. Sceglierà quest’ultimo partito troppo tardi, nel 65, acuendo i sospetti di Nerone nei suoi confronti: convinto infatti che Seneca abbia partecipato alla congiura dei Pisoni che mirava alla sua morte, l’imperatore lo condannerà al suicidio, condanna che il filosofo accetterà da vero stoico, con pacata ed eroica rassegnazione. Non è tuttora chiaro se fosse al corrente o no della congiura (come già del matricidio): molti dubbi restano sulla condotta del più grande filosofo morale di Roma, e questo non fa che accrescere il fascino della sua figura. Forse Seneca è coerente solo a livello teorico con i contenuti della sua opera, ma sicuramente ha cercato con tutto se stesso di mantenervisi fedele. Senz’altro si è trovato a vivere nel periodo storico meno adatto alla formazione di un "principe illuminato" e alla realizzazione di un modello di vita veramente serena da un punto di vista filosofico e psicologico.
I brani di Seneca che seguono sono tratti da De vita beata, De tranquillitate animi, Epistulae morales ad Lucilium e tradotti da Silvio Raffo.
Le domande di Sereno
Da qualche tempo scruto con attenzione dentro di me, Seneca, e ho scoperto diverse categorie di difetti: gli uni assai evidenti, che si possono, per così dire, toccare con mano, altri meno evidenti e più nascosti, altri ancora discontinui, che si ripresentano a intervalli; questi ultimi sono forse i più molesti, e assomigliano a nemici sparsi qua e là, pronti ad assalirmi alla sprovvista, nei confronti dei quali non so mai che comportamento adottare, se tenermi sempre all’erta, come si fa in tempi di guerra, o disarmato e tranquillo, come in tempo di pace.
C’è un mio atteggiamento, in particolare, che detesto (perché non dovrei dirti la verità come farei con un medico?): di non sentirmi né del tutto libero da ciò che temo e odio, né del tutto sottomesso al suo dominio. Mi trovo in una situazione non certo disperata, ma certamente sgradevole e fastidiosa: non sono propriamente malato, ma non sto nemmeno bene.
Non occorre a questo punto che tu mi ricordi che tutte le virtù all’inizio sono fragili e solo col tempo acquistano consistenza e solidità. So benissimo che anche le attività che mirano alla pura apparenza, come la fama e il successo nell’eloquenza e tutto ciò che dipende da un consenso popolare, acquistano vigore col passare del tempo: sia ciò che procura autentiche forze sia ciò che ha l’intento di piacere solo per una vernice esteriore abbisogna di anni perché a poco a poco il tempo gli conferisca colore; ma c’è una cosa di cui ho paura: che l’abitudine, sempre in grado di indurre stabilità e costanza a tutto, radichi in me troppo profondamente questo difetto: la frequentazione troppo prolungata sia dei mali che dei beni ti induce ad amarli, gli uni come gli altri.
Di che natura sia questo disagio dell’animo, che non sa decidere fra due diverse inclinazioni e non si volge con fermezza né al bene né al male, non riesco a mostrarlo nell’insieme, ma piuttosto nei particolari. Io ti dirò punto per punto quello che mi accade e tu troverai il nome della malattia.
Amo sopra ogni cosa la semplicità, e non mento nel dirlo: mi piace un letto senza inutili baldacchini o ornamenti di sorta, un abito non necessariamente tirato fuori da un armadio né stirato sotto mille pesi o strumenti che esaltino la vivacità dei suoi colori, un vestito da casa, semplice e modesto, che si possa conservare e soprattutto indossare senza eccessivi riguardi; quanto al vitto, preferisco una qualità di cibo che non richieda lunghi preparativi da parte dei servi né la loro sorveglianza mentre lo consumo; non desidero prelibatezze da ordinare molti giorni prima e servite da molte mani, ma di facile preparazione, che non costino soverchie fatiche; niente di raro o ricercato, ma che si trovi dovunque, non pesi né sul patrimonio né sullo stomaco, che non ritorni fuori da dove è entrato.
Il mio servo ideale non dev’essere un damerino schizzinoso, ma uno schiavetto rustico, non ammaestrato; l’argenteria che si addice alla mia casa è quella massiccia di un padre campagnolo, senza firme d’artista, e non m’importa che la tavola sia di gran pregio, intagliata con varietà e ricercatezza, o rinomata in tutta la città per esser passata fra le mani di un gran numero di nobili padroni: la preferisco adatta all’uso quotidiano, che non attiri, per il piacere che offre, l’eccessiva ammirazione o l’invidia di alcun convitato.
Ebbene: pur essendo convinto della convenienza di tutto questo, e che in ogni caso la semplicità sia la scelta migliore, non posso fare a meno di restare colpito alla prima occasione in cui mi trovo dinnanzi lo spettacolo fastoso di un corteo di paggi o di una schiera di paggi abbigliati splendidamente e adorni d’oro con più cura che per una processione, e alla stessa maniera, quando mi trovo in case sfavillanti di luci preziose anche dove poggio i piedi, di fulgidi soffitti intarsiati, traboccanti di ricchezze sparse in ogni angolo e di gente che corteggia patrimoni effimeri, non rimango indifferente a tanto lusso. E come si potrebbe del resto rimanere indifferenti di fronte a spettacoli di tale bellezza, ad acque trasparenti fino al fondo, che addirittura scorrono fra le mense gremite di convitati?
Che dire poi dei banchetti, degni degli scenari che fanno loro da sfondo? Dopo il triste rigore di un lungo periodo di temperanza, mi assale col suo fascino irresistibile il fulgore di quello sfarzo, e mi frastorna da ogni parte: i sensi vacillano, e in simili circostanze, attratto e quasi rapito da tanta luce, mi riesce più facile appellarmi al ragionamento che allo sguardo; ritorno da queste feste non certo più cattivo ma più amareggiato, e quando rientro nel mio regno disadorno non mi sento più tanto superbo della mia condizione, che tutt’a un tratto mi pare misera, e tacito e insidioso subentra l’assillo del dubbio: dubito se per caso non siano preferibili quelle magnificenze che solo teoricamente disprezzo.
Nulla di tutto questo mi altera, ma sicuramente sono tutti pensieri che mi turbano.
Mi sento sinceramente intenzionato a mettere in pratica la sostanza delle nostre dottrine filosofiche e a entrare, ad esempio, nel vivo dell’attività politica: sono deciso ad aspirare alle cariche e ai fasci, non certo per vanità o per amore di porpora e verghe, ma per poter essere d’aiuto agli amici, ai congiunti, ai concittadini e insomma a tutti gli uomini. Mi sento risoluto ed entusiasta come un novizio nel seguire Zenone, Cleante, Crisippo, anche se nessuno di loro si dedicò in effetti alla vita pubblica ma vi indirizzavano i discepoli. Quando il mio animo, così poco avvezzo agli urti, riceve qualche brutto colpo, quando mi trovo dinnanzi qualche situazione spiacevole o indegna (e se ne presentano parecchie nel corso di una vita), o qualcosa non va come dovrebbe andare, quando occupazioni di scarsa importanza mi portano via troppo tempo, allora mi rivolgo alla vita contemplativa e mi comporto come i greggi che, per quanto stanchi, affrettano il passo vicino all’ovile.
Così torno di nuovo a godere delle gioie di una vita ritirata tra le pareti domestiche, impedendo a chiunque di rubarmi anche solo una giornata, giacché nulla mi si può dare in cambio di tale perdita; ecco che il mio animo torna di nuovo padrone di sé, si chiude in se stesso e non pensa più a nulla di estraneo, a nulla che possa dipendere dal giudizio altrui: sono assetato di una serenità completamente aliena da ogni preoccupazione pubblica o privata.
Ma basta che una bella lettura mi infiammi lo spirito con nobili esempi di attività che subito mi sento spronato in senso opposto, e di nuovo sono assalito dalla brama di correre nel foro, di mettere al servizio del prossimo la mia opera e la mia parola, magari anche solo per un tentativo di far trionfare la giustizia, di frenare la superbia di qualche personaggio che il successo ha reso troppo audace.
Passando all’argomento dello studio, sono convinto che sia meglio mirare ai contenuti, parlare solo in vista di questi e adeguare le parole ai concetti, in modo che, in qualunque direzione vadano, il discorso li segua senza sforzo.
Che bisogno c’è di affannarsi per comporre capolavori che durino immortali? Non è da stolti darsi tanto da fare per passare ai posteri? Siamo nati per morire: è preferibile a tanti inutili sfarzi un funerale modesto e silenzioso. Scrivi dunque in modo semplice, per occupare il tempo e per tuo uso, non per ostentazione: si affatica meno colui che si impegna con misura, un poco ogni giorno; quando poi l’animo si innalza a pensieri sublimi anche il modo di esprimersi si raffina: non solo il pensiero, ma anche lo stile si eleva. Accade anche a me: non trovo più congeniali al mio stato interiore piacevolmente esaltato le forme d’espressione usuali e mi trovo a parlare in un linguaggio che non è il mio. Non voglio dilungarmi in elenchi minuziosi, ma sappi che in ogni situazione mi accompagna immancabilmente questa debolezza di propositi; ho la spiacevole sensazione di trovarmi sull’orlo di un precipizio, di essere prossimo a cadervi, con conseguenze più gravi di quanto possa sembrare superficialmente. Infatti si guarda sempre con molta indulgenza ai nostri difetti, non è mai del tutto imparziale il giudizio del nostro comportamento. Sono certo, ad esempio, che molti avrebbero potuto raggiungere il traguardo della saggezza se non avessero pensato di esservi già arrivati e non avessero dissimulato alcuni loro difetti, scavalcandone altri a occhi chiusi. Non c’è ragione di credere che la nostra adulazione, quella nei confronti di noi stessi, ci rechi meno danno dell’adulazione altrui. Chi ha veramente il coraggio di dire tutta la verità a se stesso?
Insomma, se tu sei in grado di proporre qualche rimedio, o un antidoto a questa mia insicurezza, sappi che ti riterrò per sempre il mio salvatore, colui al quale devo la mia serenità.
So che lo stato in cui mi trovo non è di una gravità irrimediabile e non comporta ancora turbamenti insostenibili: per chiarirlo con un paragone che mi sembra appropriato, ti dirò che mi sento come chi naviga in preda al mal di mare, e benché non vi sia una vera e propria tempesta ha ugualmente paura.
Se puoi liberarmi da questo malessere, qualunque sia, ti prego di farlo: sono un viaggiatore afflitto anche se non lontano dalla costa, che mi sembra già d’intravvedere.
Le risposte di Seneca: come raggiungere la serenità
Mio caro Sereno, è già da parecchio tempo che mi domando, meditando fra me mentre ti ascolto, a cosa potrei paragonare lo stato d’animo di cui parli; l’esempio che mi pare più appropriato è quello di chi, guarito da una grave e tediosa malattia, si sente ancora scosso di tanto in tanto da brividi e leggeri malesseri, e, pur avendo superato il peggio, anzi essendosi già ristabilito in buona salute, è sempre assalito dal sospetto di una ricaduta e si fa tastare di continuo il polso dal medico, impressionandosi al minimo rialzo di temperatura.
Chi si trova in simili condizioni, mio caro Sereno, è ormai sano dal punto di vista fisico, ma non s’è ancora, per così dire, abituato alla sanità, proprio come accade quando il mare, quietatosi da una tempesta che l’ha sconvolto, presenta ancora sulla sua superficie qualche fremito e qualche movimento quasi impercettibile.
Nel tuo caso non occorrono quelle cure energiche, né quegli aspri rimedi di cui abbiamo già parlato, cioè che tu ti opponga a te stesso e ti autopunisca irosamente; bisogna invece ricorrere al rimedio che viene da ultimo: che tu abbia fiducia in te stesso, che tu sia convinto di essere sulla retta via, e non ti lasci depistare dai passi falsi di tutti quelli che vanno errando – e sono molti – senza una precisa meta, né tantomeno dai pochi che procedono decisamente fuori strada.
Ciò di cui senti la mancanza è qualcosa di grande e sublime, quasi di divino: l’assenza di turbamento. Questa condizione di equilibrio spirituale fu chiamata dai Greci euthymía, e Democrito le dedica un intero libro, bellissimo; io la chiamo tranquillità, giacché non siamo obbligati a esprimerci in modo identico a loro e a usare gli stessi vocaboli: l’importante è capirsi sul concetto fondamentale del discorso, e il nome che usiamo deve avere il significato di quello greco, non necessariamente la stessa forma.
Dunque, noi stiamo impegnandoci in una ricerca: come possa l’animo procedere sempre in modo equilibrato e vantaggioso, sereno con se stesso, disposto ad analizzare con calma equità tutto ciò che lo riguarda e come possa mantenere questo stato di tranquillità senza turbarla, evitando sia di cadere in depressione sia di esaltarsi senza motivo. Questa sarà dunque la vera serenità. Incominciamo a porci il problema in generale, per vedere come si possa giungervi; poi da questo criterio generale tu prenderai quel che ti sembra più adatto a te.
Prima di tutto conviene chiarire i termini del problema nella sua completezza; ognuno potrà riconoscervi abbastanza facilmente l’aspetto che lo riguarda. Allo stesso tempo tu potrai capire il tuo privilegio: avrai molto meno motivo di insoddisfazione tu di coloro che, vincolati da una professione impegnativa e travagliati pur sotto l’apparente vantaggio di un nome famoso, sono incatenati alla loro finzione dalla vergogna più che da un preciso convincimento.
Si trovano tutti nella stessa condizione, mio caro: sia quelli che sono tormentati dalla volubilità, dal tedio e dal continuo cambiamento di propositi, a cui piace sempre di più ciò che si sono appena lasciati alle spalle, sia quelli che se ne stanno sempre inattivi a poltrire e a sbadigliare. Aggiungi a questi la schiera di coloro che assomigliano a chi soffre d’insonnia e continua a rigirarsi cambiando di continuo posizione finché trova riposo solo perché la stanchezza l’ha sfinito: questi mutano sempre la loro condizione di vita, e alla fine rimangono in quella in cui li stabilizza non la volontà di restarvi ma la vecchiaia, restia a ogni genere di novità.
Dovrai inoltre aggiungere a queste un’altra schiera, quella di coloro che sono poco volubili non in virtù di costanza, ma semplicemente per inerzia e vivono non la vita che si sono scelti ma quella che il caso ha sorteggiato per loro da principio.
Innumerevoli sono le sfumature del male, ma una sola è la conseguenza: tutti sono in disaccordo profondo con se stessi. Ciò deriva dalla debolezza dello spirito o da desideri non pienamente espressi o inappagati, per cui o non si osa o non si riesce a soddisfare aspirazioni e desideri ardenti o si resta vittime di una disperata speranza. Soggetti del genere oscillano sempre in una dubbiosa instabilità, com’è inevitabile che accada a chi non ha un equilibrio interiore: in ogni modo tendono alla realizzazione dei loro sogni, si costringono anche ad azioni ardue e disoneste, e quando constatano la vanità dei propri sforzi, l’insuccesso li mortifica come un disonore: non soffrono per aver desiderato cose fuori luogo, ma per averle desiderate inutilmente. Così li invade il pentimento di ciò che han fatto, e insieme il timore di ricominciare tutto da capo, nonché l’agitazione di chi non trova una via d’uscita, giacché non sono in grado né di porre un freno alle loro passioni né di appagarle; ne deriva insomma quella spiacevole inerzia di chi vive una vita che non si realizza mai ed è lentamente soffocata dall’amarezza dell’insoddisfazione. La situazione si aggrava se, per il disgusto della propria sfortuna, ci si rifugia in una vita solitaria e ritirata, insopportabile per chi sia abituato a un’esistenza attiva, ricca di eventi mondani: tutta questa gente, inquieta per natura, non riesce a trovare conforto nell’introspezione o nella dimensione contemplativa. Pertanto, quando vengono a mancare quei futili piaceri procurati da una vita di intense relazioni, non sopportano la solitudine di un’esistenza costretta nello spazio di quattro mura e si sentono dolorosamente abbandonati a se stessi. Ne deriva un gravoso senso di tedio e quell’ondeggiare dell’animo che non trova pace da nessuna parte, un’inerte e stizzosa malinconia per quest’inettitudine, specialmente quando ci si vergogna di confessarne la vera ragione e il ritegno costringe l’angoscia dentro di noi, dimodoché le passioni, occultate senza possibilità di manifestarsi, si strangolano per così dire da sole; ed ecco la cupa depressione che s’impadronisce dello spirito sempre più fragile e vacillante, ora illuso dalla speranza ora afflitto dalla delusione; ecco l’aspra intolleranza nei confronti della propria inerzia e del vuoto di ogni giorno, aggravata dall’invidia nei confronti dei successi altrui (l’inerzia infatti alimenta il livore, chi non ha avuto successo vorrebbe vedere in difficoltà il mondo intero). Da questa invidia per i successi altrui e dalla mortificazione per il proprio stato deriva anche uno sdegnoso risentimento nei confronti della sorte, un lamentarsi continuamente del proprio tempo, la tendenza a mettersi in disparte rimuginando sui propri mali, tra vergogna e pentimento.
L’inutile fuga
L’animo umano è per natura portato all’azione e al movimento. Ogni minima causa di eccitazione e distrazione gli è sempre gradita, particolarmente nel caso di ingegni poco nobili che volentieri si lasciano consumare da ciò che fanno; come certe ferite attirano irresistibilmente le mani che pure faranno del male, e godono d’esser toccate, e come l’odiosa scabbia trae piacere dall’essere irritata, allo stesso modo per certi individui, in cui le passioni si esasperano e vengono esulcerate, l’angoscia e la sofferenza sono una sorta di perverso piacere.
Anche per quanto riguarda il corpo, in effetti, alcune cose gli arrecano piacere e insieme sofferenza: basti pensare a quando ci si rigira ora su un fianco ora sull’altro cambiando continuamente posizione e ci si sfinisce, come l’Achille del famoso passo di Omero, ora bocconi, ora supino, ora in altre svariate posizioni: è proprio di chi non sta bene non sopportare mai nulla a lungo e considerare un balsamo ogni minimo cambiamento.
Così vediamo alcuni disperati intraprendere lunghi viaggi e fare il giro di tutte le coste, ora per mare ora per terra; e dovunque si trovino li assale invariabilmente un’insofferenza ostile a tutto ciò che hanno dinnanzi agli occhi. A una prima proposta che sembra entusiasmare – "Andiamo in Campania" – ne segue presto un’altra, per sazietà di eccessive raffinatezze: "Via di qua, visitiamo zone più selvagge, il Bruzzio, la Lucania". Ma ecco che in mezzo a queste lande desertiche si sente la nostalgia delle piacevolezze mondane e lo sguardo, abituato alla bellezza, cerca bramosamente qualche spettacolo ameno che lo conforti in tanto squallore e selvatica desolazione: "Andiamo a Taranto, al suo porto celebrato da tutti, è il paese ideale per passarci l’inverno, una regione ricca di tradizioni... Ma no, ora torniamo a Roma, è troppo tempo che le orecchie sono lontane dagli applausi e dalle grida del circo: è piacevole ogni tanto lo spettacolo di un po’ di sangue umano".
Si intraprendono insomma viaggi su viaggi, si passa da uno spettacolo all’altro. Come dice Lucrezio: "In questo modo ciascuno non fa che fuggire se stesso".
Ma a che giova, dal momento che non riesce veramente a fuggire da sé? Ciascuno è perennemente seguito, anzi perseguitato, da un odiosissimo compagno di viaggio: il suo stesso io, di cui non può liberarsi.
Dobbiamo persuaderci di una cosa: che il nostro malessere non dipende dai luoghi in cui ci troviamo, ma da noi. Siamo incapaci di sopportare qualsiasi cosa se non per un tempo brevissimo: insofferenti della fatica, ma anche del piacere, di noi stessi, di tutto.
C’è chi per questa insofferenza arriva addirittura al suicidio: infatti, cambiando di continuo ritorna fatalmente al punto di partenza e non riesce più a trovare alcunché di nuovo che lo appaghi; allora si rafforza in lui il male di vivere, inizia a trovare un sottile odio per la vita, e proprio perché è immerso nei piaceri fino al collo ne ha disgusto, e il tedio lo soffoca. "Fino a quando sempre le stesse cose?"
Gli antidoti al tedio
Ora tu mi chiedi se esiste un antidoto a questo male dell’anima a cui abbiamo dato il nome di tedio.
La soluzione ottimale, come suggerisce Atenodoro, sarebbe di impegnarsi in un’attività, nell’amministrazione degli affari pubblici o negli impegni sociali.
Infatti, come alcuni trascorrono le loro giornate al sole tenendo in esercizio e curando il corpo, e come per gli atleti è d’importanza fondamentale rinvigorire i muscoli, attività alla quale dedicano molte ore, allo stesso modo per noi che ci prepariamo spiritualmente alle contese della vita civile, la scelta migliore è quella di tenerci sempre allenati: quando una persona ha l’intento di rendersi utile ai suoi concittadini o a chiunque incontri, si esercita e risulta veramente utile solo se si concentra totalmente in tale impegno, dedicandosi per quanto può agli interessi collettivi e dei singoli...
Comunque, uno spirito che sia veramente nobile ha modo di realizzarsi egregiamente anche nella sfera privata; perché gli esseri umani non sono come i leoni e le altre belve che, chiuse in gabbia, perdono il loro slancio: possono compiere grandi cose anche se si sono ritirati dalla vita politica e dalla socialità.
Certo, ci si dovrà appartare in modo che, in qualunque condizione ci si isoli, si sia in grado di aiutare il prossimo, individualmente o collettivamente, con l’intelletto, con il consiglio e la parola. Infatti non è utile allo Stato solo chi elegge i candidati, chi difende gli imputati e delibera in questioni di pace o di guerra, ma anche, ad esempio, chi educa i giovani in tempi come i nostri così poveri di maestri, chi instilla nei loro animi l’amore per la virtù, chi cerca di moderare gli eccessi dei suoi simili caduti in preda a insane bramosie ritardandone, se non altro, la rovina; tutti questi, in un ambito privato, svolgono una preziosa attività sociale.
Chi ritieni più utile al benessere civile, colui che arbitra fra stranieri e cittadini, o chi insegna che cosa sia la giustizia, cosa la magnanimità, la sopportazione, la forza, il disprezzo della morte, la conoscenza della divinità? Il funzionario che recita a chi gliela chiede la formula dell’assessore o chi insegna che la tranquillità della coscienza è il bene più prezioso e costa ben poco?
Insomma, chi dedica allo studio il tempo che sottrae alle occupazioni pubbliche non viene meno ai propri compiti: non fa il suo dovere di soldato soltanto chi è sul campo di battaglia in difesa dell’ala destra o sinistra, ma anche chi sorveglia le porte e occupa un posto di guardia, forse meno esposto ai pericoli ma sempre utile, e chi è stato eletto al turno di sentinella o a sorvegliare i depositi delle armi: tutti incarichi che, anche se non comportano pericolo di vita, fanno parte degli obblighi militari.
Se ti dedicherai agli studi, sfuggirai alle noie e ai fastidi dell’esistenza comune, non ti capiterà più di augurarti che venga presto la notte per il disgusto che ti reca il giorno, non sarai più di peso a te stesso e inutile al prossimo; avrai sempre molti amici e le persone migliori verranno da te. Giacché la virtù, anche se in disparte, non resta mai nascosta, dà sempre qualche segno di sé e chi ne è degno ne seguirà sempre le tracce. Se invece eliminiamo ogni rapporto sociale e ci isoliamo da tutti rinchiudendoci in noi stessi, a questa solitudine priva di interessi si accompagnerà inevitabilmente una spiacevole inerzia: allora ci verrà la smania di edificare una casa dopo l’altra, sconvolgendo i mari e deviando le acque per costruire dove vogliamo, e di usare in modo pessimo il tempo che la natura ci ha dato a disposizione. Alcuni di noi se ne servono con eccessiva parsimonia, altri con riprovevole prodigalità: alcuni impiegano il proprio tempo in modo da poterne rendere conto, altri in modo che non ne resta traccia: e non c’è scelta peggiore di questa. Spesso ci si trova da vecchi senza alcuna testimonianza o prova d’esser vissuti a lungo, tranne l’età.
Le possibilità di giovare al bene comune
Io ritengo, carissimo Sereno, che Atenodoro si sia troppo sottomesso alle circostanze, e si sia ritirato dalla vita pubblica troppo presto.
Non intendo dire che non ci si deve mai ritirare, un giorno o l’altro ciò sarà inevitabile, ma mi sembra sia meglio farlo gradatamente, passo dopo passo, salvando le insegne e l’onore militare: guadagna maggior rispetto e benevolenza chi si arrende armato ai suoi nemici. Questo, a mio parere, si addice alla virtù e all’uomo virtuoso: se la sorte ostile gli imporrà di rinunciare all’azione, non dovrà comunque fuggire subito, gettare le armi e rifugiarsi in un qualche nascondiglio (come se esistesse un luogo in cui la sorte non possa raggiungere chi vuole!) ma dovrà dedicarsi un po’ meno ai soliti impegni e trovare, con un’adeguata selezione diversa caso per caso, altri modi di rendersi utile alla società.
Non gli è permesso di proseguire nella carriera militare? Si faccia assegnare cariche di ordine civile.
Deve vivere da cittadino privato? Eserciti l’oratoria.
Gli è stato imposto il silenzio? Aiuti i suoi concittadini con un contributo silenzioso.
Se per lui è pericoloso anche il semplice ingresso nel foro, può sempre essere compagno piacevole in svariate occasioni, nelle case private, agli spettacoli, o brioso commensale ai banchetti, amico fedele, ospite educato. Per questo noi non ci siamo rinchiusi entro le mura di una sola città, ma siamo fieri d’esserci aperti a rapporti col mondo intero, e possiamo a buon diritto dichiarare che la nostra patria è l’universo, per poter concedere alla virtù orizzonti più vasti.
Se ti è precluso l’accesso al tribunale, ai rostri e ai comizi, voltati e osserva quanto spazio s’apre alle tue spalle, quante regioni e popoli finora sconosciuti. Non ti sarà mai preclusa una parte di mondo tanto vasta, che abbia maggior estensione di quella che ti è lasciata.
Bada piuttosto che il difetto non sia dentro di te. Non sarà che non vuoi occuparti dello Stato se non come console, o pritano, o suffeta? e non accetti di prestare il servizio militare se non ti danno la carica di generale o tribuno? Invece, anche se i primi posti sono stati assegnati ad altri e il sorteggio ti avrà posto in terza fila, ciò che dovresti fare è, in qualunque posizione, esercitare il tuo dovere di soldato con le parole, le esortazioni, l’esempio e il coraggio: in battaglia ci si può rendere utili anche con le mani tagliate, restando al proprio posto e incoraggiando gli alleati, se non altro, con animose grida. Qualcosa di simile ti sarà sempre possibile fare: se la sorte ti ha escluso dai primi ranghi dell’amministrazione statale, puoi continuare a essere d’aiuto con le parole; se ti chiudono la bocca, continuare ad aiutare col silenzio.
Non è mai inutile l’attività di un cittadino onesto: tutti lo ascoltano, tutti gli riservano l’attenzione che merita. Può essere d’aiuto col volto, con un cenno, con un silenzio incorruttibile, persino col semplice incedere.
Come alcune sostanze medicinali producono un effetto salutare col semplice odore senza bisogno d’essere toccate o inghiottite, così la virtù svolge i suoi benefici effetti anche da lontano, anche restando nascosta: sia che abbia la possibilità di muoversi liberamente e di fare ciò che vuole, sia che i suoi movimenti siano ridotti al minimo e venga costretta per così dire ad ammainare le vele, sia che rimanga tacita e inerte, chiusa in uno spazio angusto, sia che si manifesti in tutta la sua forza, in qualunque modo risulta sempre utile. Non devi considerare poco proficuo l’esempio di chi sa impiegare bene il suo tempo libero. Anzi, la cosa migliore è alternare la vita contemplativa all’attività sociale quando quest’ultima ci sia ostacolata o preclusa da situazioni contingenti: in ogni caso, non accade mai che gli ostacoli siano di tale potere da non lasciare un minimo spazio ad attività dignitose.
Esempi dal passato
È difficile immaginare una città in condizioni peggiori di Atene al tempo in cui veniva dilaniata dai trenta tiranni. Avevano eliminato milletrecento cittadini, perlopiù i migliori, e non si arrestavano, anzi la loro crudeltà infieriva sempre più.
Proprio nella città che era sede dell’Areopago, il più rigoroso dei tribunali, città dotata di un senato e di un popolo degno del senato, si riuniva ogni giorno quella triste accolita di carnefici, e l’infelice curia era angustiata da tanti tiranni quante di solito sono le guardie del corpo. Poteva una città in simili condizioni godere di serenità? Non c’era nemmeno la più remota speranza di riacquistare la libertà perduta, nessuna possibilità di difesa contro una così massiccia quantità di scellerati; da dove si potevano invocare tanti tirannicidi per la sventurata cittadinanza? In un contesto del genere troviamo perennemente attivo un uomo come Socrate, che consolava i senatori addolorati, incoraggiava i disperati, ai ricchi preoccupati per le loro sostanze rinfacciava di pentirsi troppo tardi della loro funesta avidità; a chi voleva emularlo offriva un esempio egregio, procedendo libero pur in mezzo a trenta tiranni. Ebbene, quest’uomo Atene stessa lo uccise dopo averlo incarcerato, e un regime che si proclamava libertario non tollerò di fatto la libertà di pensiero di quest’uomo, che con estrema disinvoltura aveva affrontato quella schiera di tiranni; te lo ricordo per farti capire che anche in una città sconvolta, in pessime condizioni, il saggio trova il modo di dimostrarsi tale, e in una città florida al culmine del benessere regnano spesso la crudeltà, l’invidia e i vizi più nefandi. Dunque noi ci metteremo in luce o ci ritireremo a seconda delle situazioni politiche e delle nostre possibilità, ma dovremo in ogni caso fare qualcosa di buono e non lasciarci intorpidire dal freno del timore. Sarà degno del nome di uomo solo colui che, mentre incalzano da ogni parte i pericoli e armi e catene fragorose gli fremono d’intorno, senza correre inutili rischi né fare sfoggio di un’assurda temerarietà darà comunque modo alla virtù di manifestarsi: sottrarsi non equivale a salvarsi.
Curio Dentato parlava bene, a parer mio, quando sosteneva che è di gran lunga preferibile essere morto che vivere da morto: la sorte peggiore è quella di chi esce dal numero dei vivi prima di morire. Una cosa è certa: se ti sarà toccato in sorte di vivere in un momento politicamente poco favorevole, contrario ai tuoi ideali, dovrai cercare di dedicarti con più zelo possibile alla letteratura, rimanendo in disparte e, come in una navigazione rischiosa, dirigerti il più presto possibile al porto: non aspettare che siano gli eventi a costringerti, ritirati di tua iniziativa.
L’onestà nel valutare se stessi
Esaminiamo prima di tutto noi stessi, poi le attività che intendiamo intraprendere, e infine le persone di cui ci occuperemo o con cui ci terremo in contatto.
Prima di tutto, ripeto, è necessario valutare se stessi, dato che ci sembra, nella maggior parte dei casi, di avere più capacità di quante in realtà ne abbiamo: c’è chi sbaglia per eccessiva fiducia nella propria eloquenza, un altro per aver imposto al suo patrimonio oneri troppo gravosi, un altro ancora per aver costretto il suo fisico debole a troppo faticosi esercizi. In alcuni casi, la timidezza del temperamento nuoce alle relazioni sociali imposte dalle attività pubbliche, che richiedono invece un atteggiamento risoluto e deciso; in altri, l’insofferenza all’adulazione rende impossibile un lavoro nell’ambito della corte; molti non sono in grado di dominare l’ira e trascendono, per la minima offesa, a reazioni sconsiderate; c’è infine chi non è dotato del tatto necessario e per fare lo spiritoso si espone a un’incresciosa disapprovazione: per tutti questi soggetti è consigliabile una vita ritirata piuttosto che un’attività pubblica.
Un carattere focoso e indipendente deve evitare le sollecitazioni di una libertà che potrebbe riuscirgli dannosa.
Insomma, devi considerare attentamente se il tuo carattere è più adatto a una vita di fitte relazioni sociali o a una dimensione contemplativa e di studio; è essenziale dedicarsi a ciò cui tende l’indole naturale: Isocrate costrinse Eforo ad abbandonare la carriera forense perché lo vedeva più adatto alla professione di storiografo.
Le vocazioni contraddette non possono dare che frutti funesti: è tutta fatica sprecata quella che si compie nel fare qualcosa a cui la nostra indole è riluttante.
Bisogna inoltre valutare attentamente le attività a cui ci dedichiamo e misurare bene le nostre forze per verificarne l’adeguatezza: ci dev’essere di necessità più energia in chi agisce che nell’oggetto dell’azione: i pesi superiori alle capacità di chi li porta finiscono inevitabilmente per debilitare. Talvolta certe imprese non sono tanto preziose quanto impegnative, per il gran numero di dettagli che comportano; è bene evitare questo genere di attività, perché ne derivano fastidi sempre nuovi. Sono sconsigliabili anche tutte quelle occupazioni di cui è difficile o impossibile liberarsi; è opportuno occuparsi di attività che non abbiano in sé insidie di sorta, alle quali si possa fissare un termine o almeno prevederlo con un minimo di certezza, evitando quelle che richiedono più spazio del previsto o non terminano dove si era pensato.
Fondamentale è, in ogni caso, la scelta delle persone con cui avremo a che fare: consideriamo se siano meritevoli del tempo che dedichiamo loro, e se apprezzino adeguatamente il nostro impegno; può accadere infatti che alcuni ci rimproverino come una colpa il fatto di aver adempiuto ai nostri doveri. Atenodoro sostiene a questo proposito che non andrebbe nemmeno a pranzo da uno che per questo non si sentisse in certo qual senso suo debitore; e ancor meno da gente che pensa con un pranzo di sdebitarsi dei servigi degli amici, gente che considera ogni piatto un dono, come se l’essere intemperanti fosse solo un modo di onorare il prossimo. Se togli spettatori e testimoni a persone di questo genere e le fai pranzare da sole, il cibo non procurerà loro nessuna gioia.
Il conforto di un’amicizia onesta
Un’altra cosa è certa: nulla conforta l’animo quanto un’amicizia dolce e fedele.
Non c’è nulla che può dare più gioia di una persona d’indole sincera in cui ogni segreto può scendere senza pericolo, di cui tu non debba temere la complicità più della tua stessa coscienza, il cui suggerimento ti aiuta a prendere una decisione importante, la cui affabilità dissolve ogni mestizia e la sola vista procura gioia. Ovviamente sarà sempre meglio scegliere amici liberi, per quanto possibile, da passioni nocive: i vizi, infatti, sono contagiosi e si diffondono con una rapidità incredibile, nuocendo a volte col semplice contatto. Perciò, allo stesso modo in cui durante una pestilenza eviteremo di sederci vicino a persone già colpite dal morbo perché ne trarremmo unicamente danno e potremmo ammalarci anche solo respirando, così nella scelta degli amici staremo bene attenti a prediligere i caratteri più schietti: mescolare elementi sani e malati è sicuro principio di malattia.
Non sto imponendoti di frequentare soltanto chi è perfetto: dove troveremmo del resto un soggetto del genere, che stiamo cercando invano da generazioni? Valga per ottimo chi è meno peggio. Difficilmente potresti trovare di meglio cercando con cura tra uomini di valore come Platone o Senofonte, o fra gli epigoni della scuola socratica, o se potessi scegliere fra i virtuosi dell’epoca catoniana, feconda di uomini degni di nascere, appunto, al tempo di Catone (pur avendone generati molti peggiori che in qualsiasi altra epoca, autori dei più efferati delitti; ma era forse necessario che ci fossero esponenti di entrambe le categorie, perché Catone potesse esprimersi appieno: doveva avere accanto a sé sia gli onesti che lo apprezzavano, sia i disonesti su cui esercitare la propria forza). Oggi invece, in tanto squallore e scarsità d’ingegni validi, la scelta potrebbe essere meno ardua.
Un ultimo suggerimento: evita in particolare i soggetti malinconici, quelli che si lamentano sempre di tutto e che in ogni situazione trovano qualcosa di negativo. Persone del genere, ombrose e inclini al pessimismo, possono essere anche fedeli e capaci d’amare, ma saranno sempre nemiche della serenità.
Il patrimonio. L’esempio di Diogene
Dobbiamo ora toccare il punto più dolente: l’argomento del patrimonio economico.
Questo è stato sempre motivo di grandi angosce per l’uomo. Se confrontiamo tutte le altre ragioni di sofferenza umana – morti, malattie, rimpianti, paure, dolori e fatiche da sopportare con i mali che ci procura il denaro – ci accorgiamo che questi ultimi sono i più gravosi.
Dobbiamo convincerci in realtà che è male assai più lieve non avere che perdere, e così scopriremo che la condizione della povertà non può arrecare un gran tormento, in quanto comporta una ben scarsa possibilità di perdite. Non credere che i ricchi sopportino le perdite con maggior coraggio: una ferita è dolorosa sia per una corporatura gigantesca che per una macilenta.
Con la sua consueta arguzia, Bione afferma che farsi strappare i capelli non è meno doloroso per i calvi che per chi ha una folta chioma. Si può dire la stessa cosa a proposito dei ricchi e dei poveri: uguale è il tormento, perché agli uni e agli altri il denaro è rimasto, per così dire, attaccato, e pertanto non può venir strappato senza che se ne accorgano. Come dicevo, è preferibile la condizione di chi non ha nulla a quella di chi perde: vedrai più lieto colui che la fortuna ha sempre trascurato di colui che essa abbandona improvvisamente. Diogene, uno degli uomini più magnanimi che siano mai esistiti, aveva capito perfettamente questa verità, perciò scelse di vivere in modo che nulla potesse essergli tolto. Puoi chiamare la sua condizione con il nome più spiacevole che ti viene in mente, miseria, bisogno, povertà; io la chiamo tranquillità, e sarò disposto ad ammettere che quest’uomo non è felice solo se me ne indicherai un altro cui non si possa recare alcun danno.
Mi sbaglio o è una gioia davvero invidiabile, in un mondo pieno di invidiosi, di imbroglioni, di ladri e falsari, essere l’unico a cui nessuno può recare danno? Se hai dei dubbi sulla serenità interiore di Diogene, allora devi averne anche sulla felicità degli dèi immortali: forse non vivono una vita felice perché non possiedono poderi né giardini né campi gremiti di coloni mercenari né investimenti nel foro? Ti sembra intelligente restare a bocca aperta solo davanti alla ricchezza? Solleva lo sguardo a contemplare l’universo: gli dèi sono nudi: danno tutto e non hanno nulla. Allora, come consideri un uomo che è riuscito a liberarsi di tutto ciò che dipende dalla sorte, povero o simile agli dèi? Ritieni più felice Demetrio Pompeiano, che non si vergognò di accumulare più ricchezze di Pompeo? Quotidianamente voleva che gli si riferisse il numero esatto dei suoi schiavi, come a un generale quello dei soldati, mentre avrebbero potuto comodamente soddisfare i suoi bisogni un paio di aiutanti e una stanza decorosa.
A Diogene, invece, l’unico schiavo che aveva fuggì, e quando gli rivelarono dove si trovava, non ritenne che fosse il caso di riprenderlo al suo servizio.
"È una vergogna" disse "che Mane possa vivere senza Diogene, e Diogene non possa vivere senza Mane."
Il che equivaleva a dire: "Fa’ quello che ti pare, Fortuna: Diogene ormai non ha nulla che dipenda da te; gli è fuggito lo schiavo, o meglio, se ne è trovato libero". Anche avere schiavi comporta dei doveri: occorre vestirli, dar loro da mangiare, soddisfare la gola di tanti animali ingordi, comperare una gran quantità di stoffa e tener d’occhio quelle mani rapaci, abituandosi a trattare con gente che sa solo piangere e maledire; sta molto meglio chi non deve nulla a nessuno e ha debiti solo con se stesso, ossia con qualcuno a cui è piuttosto facile dire di no. Ma, dal momento che non sempre abbiamo una forza così esemplare, è opportuno limitare la misura del nostro patrimonio per essere meno esposti ai colpi della sorte. Anche in campo di battaglia rischiano meno i corpi minuscoli, che possono nascondersi sotto le armi, mentre i più grossi sono più esposti alle ferite; la condizione preferibile, per quanto riguarda il denaro, è quella di chi, pur non arrivando alla povertà, non ne è tuttavia lontano.
Evitare il superfluo, individuare l’essenziale
È bene abituarsi a evitare ogni inutile sfarzo e a valutare l’effettiva utilità delle cose, non la mera apparenza.
Il cibo deve saziare la fame, come una bevanda la sete; alle necessità fisiche si deve provvedere come richiede la natura; impariamo a reggerci sulle nostre gambe, a conformare il nostro tenore di vita non alla moda, ma ai saggi consigli degli antichi; cerchiamo di rinsaldare la nostra continenza, di moderare il lusso e l’ambizione, di placare l’ira, di guardare di buon occhio un’eventuale povertà, di coltivare un vitto modesto che per molti è causa di vergogna, di ricorrere per le necessità naturali ai rimedi più naturali e meno dispendiosi, di mantenere sempre entro i dovuti limiti le speranze sfrenate e l’animo smaniosamente proteso al futuro, educandolo a pretendere la ricchezza da se stesso più che dalla fortuna.
Sono talmente imprevedibili gli eventi umani, e spesso talmente ingiusti, che a volte è impossibile evitarli: spesso si è travolti da immani tempeste, se si procede a vele spiegate, ed è necessario raccogliere tutto in un breve spazio perché i colpi procurino meno danni. In certi casi, l’esilio o sventure di vario genere sono risultati utili, e con disagi poco rilevanti si sono evitati mali più gravi. A un individuo che non ascolta i precetti e non si lascia curare con rimedi blandi è meglio a volte che vengano imposte la povertà, la rovina e l’infamia: un male è neutralizzato da un altro male.
Ad esempio abituiamoci ad abitare in case non troppo lussuose, a cenare senza uno stuolo di servi attorno, a procurarci gli abiti per il loro scopo primario, che è quello di vestirci decorosamente. Come nelle gare di corsa o negli spettacoli del circo, anche in questi percorsi della vita è consigliabile fare il giro più stretto. Perfino i soldi che si spendono per gli studi, ovvero per una delle attività più nobili che esistano, non devono eccedere la giusta misura. Che senso ha riempire una biblioteca di un incalcolabile numero di libri il cui proprietario riuscirà nel corso della vita a leggere sì e no qualche titolo?
Per chi studia, l’eccessiva quantità è di peso, anziché istruire confonde: è sicuramente meglio dedicarsi a pochi autori che disperdersi fra molti.
Nella celebre biblioteca di Alessandria andarono in fumo quarantamila volumi. Per qualcuno saranno stati una meravigliosa e lodevole testimonianza di munificenza regale, anche Livio ne parla come di uno splendido esempio di eleganza e di generosità dei sovrani: secondo me invece quell’immensa quantità di libri non fu che un inutile sfarzo, un lusso letterario, anzi nemmeno letterario, perché non aveva come scopo la diffusione di un’autentica cultura ma una pura e semplice ostentazione spettacolare; anche tu conosci molte persone perfettamente ignoranti di letteratura che collezionano libri non certo per leggerli ma per sfoggiarli come ornamento nella loro sala da pranzo. Procuriamoci dunque i libri che davvero ci interessano e ci sono utili, e mai allo scopo di farne bella mostra.
Qualcuno potrà obiettare a questo punto: "Sempre meglio spendere denaro in libri che per bronzi di Corinto, quadri e altre suppellettili del genere".
Io dico che l’eccesso è un difetto in ogni campo. Non mi sento di scusare un uomo che va dappertutto in cerca di scaffali di cedro e avorio per stiparli delle opere complete di autori a lui sconosciuti o di nessun valore, e poi tra tante migliaia di volumi sbadiglia, compiacendosi unicamente dei frontespizi, dei titoli o della lussuosa edizione.
Accade di trovare tutto quel che è stato scritto dagli storici e dagli oratori nelle case delle persone più ignoranti e prive di reale interesse per la cultura, e scaffali che arrivano fino al soffitto: proprio come i bagni e le terme, ormai anche le biblioteche vengono considerate un ornamento indispensabile in una casa che abbia pretese di eleganza.
Sarei disposto a perdonare l’errore se fosse commesso per troppo amore della cultura; ma la triste verità è che queste opere di grandi ingegni, raccolte da ogni dove e ben catalogate coi ritratti dei loro autori, vengono collezionate ed esposte solo per far arredamento e "bella figura".
Siamo tutti in catene
Tutti, lo sai, siamo legati alla sorte: chi con una catena d’oro, allentata, chi con una catena stretta e di bassa lega. Non fa molta differenza: siamo tutti in catene.
E ti dirò di più: sono legati anche quelli che legano, a meno che tu pensi che una catena stretta al braccio sinistro sia meno gravosa.
Uno è incatenato dalle cariche pubbliche, uno dalle sue ricchezze; alcuni sono soffocati dalla loro stessa fama, altri dalla consapevolezza di essere ignorati; c’è chi è dominato da qualcuno, chi da se stesso; chi è costretto a restare sempre nello stesso posto in conseguenza dell’esilio, o per via di inevitabili impegni. Ogni genere di vita è una sorta di schiavitù. Per questo conviene accettare la propria condizione, qualsiasi essa sia, lamentarsene il meno possibile, e valorizzare al massimo ogni suo lato positivo: non c’è situazione tanto spiacevole in cui un animo equilibrato non riesca a trovare un qualche motivo di conforto. Spazi assai ridotti possono tornare utili come spazi più ampi, anche un metro quadrato, se lo sistemi adeguatamente, può trasformarsi in un’abitazione.
Dinnanzi alle difficoltà l’unico rimedio è usare la ragione: solo in tal modo le asprezze saranno mitigate, le angustie alleggerite; i pesi gravano meno chi li sa portare come si deve.
È buona norma non esagerare neanche con i desideri. Non dico di reprimerli, ché non sarebbe giusto, né del resto possibile: lasciamo loro una certa possibilità di agio, ma cerchiamo di usare anche in questo la ragione; evitiamo di coltivare desideri assurdi e irrealizzabili, concentriamoci su quelli, per così dire, alla nostra portata, quelli che si offrono spontaneamente alla nostra speranza; ma pensiamo sempre, in ogni caso, che si tratta di cose non essenziali, non veramente importanti, esternamente appetibili e variamente piacevoli, ma in realtà inconsistenti. E non cadiamo nell’errore di invidiare chi ha raggiunto posizioni più alte della nostra: i luoghi che sembrano elevati sono sempre scoscesi, e quindi pericolosi.
In particolare, coloro che una sorte ingiusta ha collocato nell’incertezza staranno senz’altro meglio se eviteranno la superbia e manterranno il più possibile in basso la propria condizione. Certo, per molti è indispensabile restare a quell’altezza dalla quale non possono scendere se non cadendo; ma questa è una prova del grande peso da cui sono gravati: infatti sono obbligati a pesare su altri, e in tal modo dimostrano di non essere "sollevati", ma semplicemente "attaccati" più in alto. Anche loro dovranno di continuo procurarsi molti aiuti con estrema avvedutezza, pazienza e magnanimità per migliorare ulteriormente la propria situazione, e solo nella speranza di questi aiuti si sentiranno tranquilli.
Non c’è nessuna condizione, insomma, in cui ci si possa sentire veramente liberi da questa ondeggiante inquietudine dell’animo: l’unico rimedio è fissare sempre un termine al nostro progredire – senza affidare al caso l’arbitrio del traguardo definitivo – ma fermarci di nostra iniziativa molto prima; in tal modo lo spirito riceverà gli stimoli di aspirazioni moderate e non cadrà mai vittima di eccessi né di penose incertezze.
Vive male chi non sa morir bene
Tutto ciò che ti sto dicendo, come hai già capito, riguarda gli imperfetti, i mediocri, chi ha la mente inquinata, non il vero saggio. Costui cammina sicuro, non brancolando a tentoni: ha piena fiducia in se stesso e non esita ad andare incontro alla sorte, ben determinato a non cederle mai il passo.
Che motivo avrebbe, del resto, di temerla? Egli considera tutto transitorio e deperibile, non solo le sue sostanze, la sua dignità e i suoi schiavi, ma anche il suo corpo, gli occhi, le mani e tutto ciò che rende preziosa la vita, soprattutto sente la fragilità del proprio io, e vive come se fosse solo dato in prestito a sé, pronto in ogni istante a restituire tutto senza rimpianto, qualora gli venisse richiesto. Non per questo, però, darà scarsa importanza a se stesso, per la consapevolezza di non appartenersi, anzi si comporterà sempre con somma diligenza e correttezza, come deve comportarsi un uomo onesto e scrupoloso nell’eseguire gli incarichi che gli sono stati affidati.
E quando arriverà il momento in cui deve restituire ciò che ha avuto, non si lamenterà con la sorte ma le rivolgerà queste parole: "Ti sono grato per ciò che mi hai concesso. Ho avuto la miglior cura possibile dei tuoi beni, ma, poiché ora mi ordini di farlo, te li rendo di buon animo, senza alcuna pretesa; se vorrai lasciarmi ancora qualcosa di tuo, ne sarò lieto; se invece hai deciso altrimenti, ti restituisco argenteria, denaro, casa e servitù".
Prima o poi la natura, che ci ha dato un gran numero di cose, ci richiamerà all’appello e noi le diremo: "Riprenditi l’animo in condizioni migliori di quando me l’hai dato; non ho intenzione di oppormi o sottrarmi a ciò che mi richiedi: riavrai da me senza alcuna rimostranza tutto ciò che hai dato a me inconsapevole di riceverlo; prenditi tutto".
Può essere un male ritornare là donde si è venuti?
Vive male chi non sa morire bene.
La prima cosa da fare è togliere eccessivo valore a questo bene transitorio che è la nostra vita, e darle solo il peso che merita.
Ci danno fastidio, come ricorda Cicerone, perfino i gladiatori che vogliono a ogni costo ottenere la grazia della vita; concediamo loro il nostro favore, invece, se mostrano di disprezzarla. Per noi è lo stesso, credimi: spesso può essere causa di morte la paura di morire.
La fortuna, colei che conduce il gioco, dice più o meno: "Per quale motivo dovrei salvare te, essere meschino e codardo? Anzi, ti procurerò più ferite e tormenti, poiché non sai offrire la gola; vivrai più a lungo e morirai meno dolorosamente e più in fretta tu che continui a combattere coraggiosamente e non tiri indietro il collo né protendi le mani".
Chi ha paura della morte non vive da uomo vivo; chi invece la vede come un traguardo naturale riservatogli fin dal momento della nascita, vive secondo le regole di natura e in virtù della sua forza d’animo non sarà mai colto di sorpresa né disarmato da alcuna esperienza. Prevedendo infatti tutto ciò che può accadergli, sentirà meno duro ogni colpo della sorte: i mali non arrecano mai nulla di nuovo a chi vi è preparato e li aspetta ogni giorno della sua vita, mentre risultano gravosi e insopportabili a chi crede d’essere sempre al sicuro e si aspetta solo cose belle.
Una malattia, un incendio, la prigionia, un crollo improvviso: tutto può capitare, nulla mi coglierà alla sprovvista. Sapevo bene in quale rischiosa dimora la natura mi aveva rinchiuso. Quante volte nelle case vicine si è levato il grido del lutto; quante volte sono sfilati dinnanzi alla mia soglia portatori di ceri e di fiaccole per la celebrazione di premature esequie; spesso ho sentito schiantarsi a pochi passi da me un intero edificio; molti amici e compagni, con cui avevo diviso la giornata nel foro o al senato o a passeggio, di notte sono stati sottratti per sempre al mio sguardo e alla stretta della mia mano; e dovrei stupirmi se anche su di me piombano quei pericoli che così di frequente ho visto vagare nelle mie vicinanze?
Il fatto è che la maggior parte degli uomini si mette in mare senza pensare all’eventualità di una tempesta.
Se un’argomentazione è valida, non mi vergognerò mai di citare una fonte spregevole: Publilio, più che mai vigoroso sia nei caratteri comici che nei tragici, quando lascia da parte le insulse facezie da mimo e le battute adatte al popolo ignorante, a volte è capace di espressioni degne del teatro tragico più che di quello comico, come ad esempio quando fa dire a un suo personaggio: "A chiunque può accadere ciò che accade a qualcuno".
Chi si imprimerà bene nella memoria questa frase e la farà scendere nel profondo della propria coscienza guarderà con più attenzione ai mali altrui, di cui c’è ogni giorno fin troppa abbondanza di esempi, come se fossero toccati anche a lui: in tal modo sarà sempre difeso, giacché si armerà prima d’essere aggredito.
È nocivo abituarsi tardi alle sventure, rassegnarsi alla sopportazione quando ci hanno già assalito. Non ha senso esclamare: "Non avrei mai pensato che le cose andassero così" o "Chi avrebbe mai sospettato una cosa simile?". Ah, no? Non sapevi che non esiste ricchezza che non sia seguita da povertà, fame e umilianti ristrettezze?...
Non c’è regno che non sia votato alla rovina, all’infamia di un tiranno o di un carnefice.
Il senso della misura
Ed ecco un altro consiglio: non sprecare le tue energie in attività inutili e vane. Il che equivale a dire: non desiderare mete irraggiungibili o che, una volta raggiunte, rivelino troppo tardi l’inconsistenza del desiderio; cerca sempre di fare in modo che la fatica non sia inutile, che un qualche risultato ci sia, possibilmente adeguato all’impegno profuso nell’impresa.
Di qui nasce infatti, quasi sempre, lo sconforto: dal non aver successo o dal vergognarsi del successo conseguito. Occorre anche porre un limite a quel correre continuo di qua e di là, da casa a teatro, da casa al foro, come fa tanta gente che si presenta sempre con l’aria d’essere seriamente indaffarata a chi è davvero immerso in occupazioni serie. Se a una di queste persone domanderai, mentre sta uscendo di casa, dove stia andando o cos’abbia in mente di fare, ti risponderà che non ne ha idea: "Qualcuno comunque incontrerò, qualche cosa farò".
Così vagano qua e là senza scopo, cercando qualcosa di cui occuparsi ma non trovandola; non fanno ciò che avevano stabilito di fare, ma quello che gli capita, appunto, a caso. Senza scopo, disordinatamente, continuano ad agitarsi, come le formiche che si arrampicano lungo i tronchi d’albero e arrivano alla cima per poi ritornare in basso senza concludere nulla.
Innumerevoli persone vivono in questo modo; non sbaglia chi definisce la loro esistenza un’inquieta inerzia. Fanno quasi pena: si precipitano fuori di casa come se dovessero correre a spegnere un incendio, urtando e facendo cadere chi intralcia il cammino, inciampano essi stessi mentre si affannano a salutare qualcuno che non risponderà al loro saluto, o seguono il feretro di una persona a loro ignota, o talvolta una lettiga, che si prestano a tratti a portare; puoi trovarli al processo di chi è sempre invischiato in qualche bega legale o al matrimonio di chi si dedica al passatempo di sposarsi più e più volte. Ogni sera, tornano a casa sfiniti dall’inutile stanchezza, giurando di non sapere essi stessi perché sono usciti e dove sono andati, ma il giorno dopo sono sicuramente disposti a ripercorrere un identico tragitto.
Ogni fatica, ricordalo, deve avere un senso e un fine. Tutti questi individui non sono tenuti in movimento da un’attività ma, proprio come i matti, da visioni fittizie: anche i matti sembra che si muovano con un qualche proposito ma in realtà si lasciano attirare da qualcosa che ha una consistenza solo apparente, qualcosa di cui la loro mente turbata non coglie la vacuità. Allo stesso modo ciascuno di costoro, che escono solo per accrescere la folla, vagabonda per la città senza una meta e, pur non avendo nulla da fare, esce di buon’ora e bussa alle porte di diverse case. A volte trova solo un servitore, altre volte nessuno, o non gli viene nemmeno aperto: in ogni caso, nessuno trova in casa più difficilmente di se stesso.
Da ciò deriva un male orribile: l’abitudine di ascoltare e spiare tutti i comportamenti sia pubblici che privati, venendo a conoscenza di fatti che è pericoloso ascoltare e ancor più pericoloso diffondere.
L’autenticità del vero io
Un’altra cosa che ci dà motivo non lieve d’inquietudine è la mancanza di spontaneità e naturalezza.
Si è costretti troppo spesso ad assumere pose forzate, a non mostrarsi al prossimo per quello che si è. La vita di molte persone è condizionata dall’ostentazione.
Eppure è un tormento doversi sempre controllare e stare perennemente in guardia, col timore di essere sorpresi in un atteggiamento diverso da quello consueto. Come ci si può sentire sereni, liberi dall’angoscia, se si vive nel perenne timore di essere osservati e giudicati?
Sono parecchie le situazioni che ci disarmano mettendo a nudo il nostro vero io, e, anche ammettendo che possa essere utile l’atto di controllarsi in sé, non è piacevole né rilassante la vita di chi indossa perennemente una maschera.
Quant’è serena invece la semplicità schietta e spontanea, non priva di grazia, di un comportamento senza veli! È vero che un siffatto modo di vivere spesso attira critiche, se non disprezzo, come accade inevitabilmente quando tutto è sotto gli occhi di tutti: c’è infatti chi disprezza facilmente ciò che ha sotto gli occhi. Ma la virtù non teme alcuna perdita di valore agli occhi di nessuno, ed è preferibile essere disprezzati per la propria spontaneità che tormentati da una continua, soffocante finzione. Anche della spontaneità, comunque, si faccia un uso equilibrato: c’è differenza tra il vivere in modo autenticamente spontaneo e in modo trasandato e volgare.
È importante sapersi ritirare in se stessi: un eccessivo contatto con gli altri, spesso così dissimili da noi, disturba il nostro ordine interiore, riaccende passioni assopite, inasprisce tutto ciò che nell’animo vi è di debole o di non ancora perfettamente guarito. Vanno opportunamente alternate le due dimensioni della solitudine e della socialità: la prima ci farà provare nostalgia dei nostri simili, l’altra di noi stessi; in questo modo, l’una sarà proficuo rimedio dell’altra. La solitudine guarirà l’avversione alla folla, la folla cancellerà il tedio della solitudine.
Né d’altra parte è buona cosa mantenere la mente sempre nel medesimo stato di tensione: meglio volgerla di tanto in tanto a serene distrazioni. Socrate non provava alcuna vergogna a giocare coi bambini, Catone rinfrancava col vino lo spirito afflitto dalle cure politiche, Scipione amava muovere a passo di danza quel suo robusto corpo avvezzo ai trionfi militari, non certo in modo svenevole (come ai nostri giorni, in cui vediamo uomini camminare con movenze più femminili delle donne), ma secondo il costume virile degli uomini del passato che usavano danzare nei giorni di festa senza perdere dignità nemmeno agli occhi dei loro nemici.
All’animo va concesso un certo margine di svago: una volta riposato, si riprenderà migliore e più forte.
Proprio come è improduttivo forzare i campi fertili, giacché una fecondità senza interruzione li danneggerebbe, così l’assidua tensione ottunde gli slanci dell’intelletto: una fatica senza sosta sfinisce lo spirito, o lo rende pericolosamente languido; se invece lo si lascia a tratti libero e tranquillo, riacquisterà il vigore che gli è necessario per una obiettiva visione della realtà.
D’altra parte, se quella di giocare e scherzare non fosse un’esigenza naturale, gli uomini non la proverebbero così intensamente e così spesso nel corso della loro vita; certo, pure in questo non bisogna esagerare: l’indulgervi troppo toglie forza e vigore all’anima. Anche il sonno è un ristoro irrinunciabile, ma se lo protraessimo oltre il giusto limite diventerebbe morte. Allentare e sciogliere del tutto son due cose diverse. I legislatori fissarono le festività appunto per concedere ufficialmente ai cittadini dei giorni di riposo e di svago, al fine di interrompere gli oneri del lavoro con una distensione per così dire necessaria: anche gli uomini più importanti si concedevano vacanze mensili in giorni fissati a questo scopo, altri dividevano la propria giornata intervallando ore di riposo a quelle del più serio impegno; così ad esempio, in tempi recenti, faceva Asinio Pollione, che dopo le quattro del pomeriggio non si dedicava più a nessun impegno, tralasciando perfino di leggere la corrispondenza, per timore che si presentasse qualche motivo di preoccupazione, e in poco tempo gettava via la fatica di un’intera giornata. Alcuni preferiscono interrompere il lavoro a metà giornata e rimandano al pomeriggio gli impegni meno gravosi. Anche presso i nostri antenati era proibito presentare in senato un nuovo ordine del giorno dopo le sedici.
Nella disciplina militare esistono precisi turni di guardia e per chi ritorna da una spedizione la notte è libera da qualsiasi servizio.
Consigli per una vita sana
Lo spirito va insomma rigenerato e di tanto in tanto bisogna concedergli il riposo necessario a rinvigorirlo.
Una buona abitudine è anche quella di fare passeggiate all’aria aperta, perché ci fa bene respirare liberamente: anche una gita in carrozza, un viaggio o un semplice spostamento potranno giovare, così come – perché no? – un banchetto o una libagione in misura più abbondante del solito. In alcuni casi non disapprovo neanche l’ebbrezza, purché ci distenda senza sconvolgerci o farci perdere il senno: suoi benefici effetti sono il cancellare gli affanni, toccare l’animo nel profondo e alleviare non solo malanni fisici ma anche e soprattutto la tristezza.
L’inventore del vino, Bacco, fu chiamato anche Libero non perché, bevendo, la lingua si scioglie ma perché bere libera l’animo dall’oppressione delle angosce, lo rinfranca, lo ravviva e lo rende più ardito a tentare qualsiasi impresa. Ovviamente anche per il vino, come per la libertà, occorre sapersi porre i dovuti limiti. Sappiamo quanto amassero il vino Socrate e Arcesilao, e perfino Catone fu rimproverato per la sua tendenza a ubriacarsi; la conseguenza di una simile accusa è che si finisce per scusare la colpa piuttosto che macchiare la figura di Catone. A proposito del bere, per concludere, io la penso così: anche se non bisogna indulgere troppo all’ebbrezza per non contrarre una cattiva abitudine, in certi casi non è male abbandonare la sobrietà per giovare allo spirito, innalzandolo a una condizione di libera e creativa vivacità.
Se vogliamo credere ai poeti, Anacreonte afferma che "talvolta è piacevole fare qualche pazzia"; così anche Platone: "Chi è di mente sana invano batte alla porta della poesia"; ma anche Aristotele: "Nessun grande ingegno fu mai senza una vena di follia". Solo una mente per così dire invasata riesce a pronunciare parole alte e sublimi; solo una mente ispirata da una sorta di divinità riesce a disprezzare i soliti luoghi comuni, a levarsi a certe altezze a cui non si giunge facilmente, e una volta conquistate quelle vette, a cantare in toni più nobili di quanto sia concesso a bocche mortali; mentre, finché è in sé o si controlla, non può arrivare a nessun risultato di sublimità. Bisogna staccarsi dall’usuale, lasciarsi trasportare, mordere i freni: solo così lo spirito trascinerà a sua volta l’auriga là dove, privo di quello straordinario stimolo, avrebbe avuto paura di salire.
Ecco, mio diletto Sereno: ti ho esposto il mio pensiero in merito alla serenità interiore. Ora hai gli strumenti per recuperarla, mantenerla, e inoltre resistere ai vizi che cercheranno di traviarti.
Devi sapere però che nessuno di questi rimedi potrà essere applicato o avere sufficiente successo se nutri ancora delle incertezze e se non sorvegli con ininterrotta premura lo spirito sempre pronto a vacillare.
La vita felice: difficile traguardo
Gallione, fratello mio, tutti vorrebbero vivere felici, ma è difficile per tutti individuare con precisione che cosa renda veramente felice la vita; è a tal punto difficile raggiungere la felicità che, se appena sbagli strada, quanto più affannosamente la cerchi tanto più te ne allontani; se la via che hai imboccato va in senso contrario, la velocità stessa allunga la distanza dal traguardo. Perciò prima di tutto occorre chiarire quale sia la nostra meta; in un secondo momento cercare la via per raggiungerla nel minor tempo possibile, disponendosi a calcolare mentre si è in cammino – sempre che sia quello giusto – i progressi di ogni singolo giorno e quanto ci si avvicini di giorno in giorno al traguardo che è la natura stessa a imporci. Una cosa è certa: finché vaghiamo a caso, senza seguire alcuna guida, ma solo le confuse voci discordi che ci sviano in direzioni opposte, la nostra vita, di per sé già breve, si consumerà in questo vano vagabondare, anche se ci sembrerà di affannarci per conseguire il bene. Chiariamo dunque anzitutto la meta e la via migliore per raggiungerla, avvalendoci magari dell’aiuto di una persona esperta, che conosca già il cammino da intraprendere, giacché in questo caso non si tratta di un viaggio come gli altri: nei soliti viaggi la via che imbocchiamo e coloro a cui chiediamo informazioni ci impediscono di sbagliare, mentre qui sono proprio le vie più battute e frequentate quelle che più sottilmente ci ingannano. Bisogna assolutamente astenersi dal seguire pedissequamente, come farebbero delle pecore, il gregge di quelli che ci precedono: evitare di dirigersi dove vanno tutti, anziché dove è giusto andare. Non c’è errore più grave e più carico di conseguenze disastrose del regolarsi secondo il parere della maggioranza, e considerare ottimo ciò che è approvato dai più, attenendosi sempre agli esempi altrui e compiendo le proprie scelte esistenziali non secondo ragione ma per puro conformismo. È proprio da questa non scelta che deriva quel deprecabile ammassarsi di individui che cadono gli uni sugli altri: ciò che succede, intendo, quando la folla, accalcandosi, cade e fa cadere: nessuno infatti cade senza trascinare nella sua caduta qualcun altro, i primi sono causa di rovina per chi li segue; una situazione simile si verifica in ogni aspetto della vita: nessuno sbaglia danneggiando solo se stesso, perché nel suo errore trascina sempre qualcun altro; è pericoloso appoggiarsi a chi ci sta davanti; purtroppo quasi tutti preferiscono affidarsi al giudizio altrui piuttosto che usare la propria testa: in molte occasioni della vita si crede in qualcosa a occhi chiusi anziché giudicare a ragion veduta; così l’errore, passando dall’uno all’altro, ci fa cadere, anzi, precipitare. Sono gli errori altrui a rovinarci: guariremo solo se ci terremo lontani dalla folla. Accade inoltre che, sempre contro ragione, il volgo si erga in difesa del proprio male. Succede come nei comizi, in cui, quando il volubile favore popolare cambia direzione, si meravigliano dell’elezione dei pretori quegli stessi che li hanno eletti: anche noi in certe circostanze approviamo qualcosa che poi biasimeremo. Questo è il risultato inevitabile se ci si ostina a giudicare secondo l’opinione generale.
Una vita in armonia con la propria natura
Quello a cui dobbiamo tendere è un bene non apparente, ma reale, duraturo e più intimamente bello: dobbiamo trovarlo. Non è lontano: occorre solo sapere dove tendere la mano. Molto spesso accade che si passi accanto a ciò che cerchiamo, ma è come se camminassimo al buio e non ce ne accorgiamo: inciampiamo in quel che ci occorreva e distrattamente passiamo oltre. Ma per non farti perdere tempo, tralascerò le opinioni altrui (sarebbe troppo lungo enumerarle e discuterle tutte): mi limiterò a esporre la nostra, e tu ascoltala con attenzione. Dicendo "nostra" non intendo aggregarmi a qualcuno in particolare dei grandi stoici, perché ho anch’io il diritto di un’opinione personale: seguirò ora l’uno ora l’altro di quelli di cui condivido il pensiero, poi, invitato a esprimermi dopo gli altri, non rifiuterò nessuna delle idee precedenti, ma dirò: "Io, in più, la penso in questo modo".
Innanzitutto, sono pienamente d’accordo con i filosofi stoici sull’opportunità di seguire sempre e comunque la natura: è uno dei primi indizi di saggezza non allontanarsi da essa e conformarsi al suo esempio e alle sue norme. La felicità consiste per l’appunto nel condurre una vita in accordo con la propria natura; ma questo non può accadere se lo spirito non è sano o non in grado di mantenere il possesso di tale sanità, così pure se non è forte ed energico, particolarmente paziente e pronto a intervenire in ogni circostanza che lo richieda, non troppo preoccupato di ciò che riguarda il corpo, capace di cogliere tutto ciò che allieta la vita senza farsi per questo soggiogare dai piaceri, pronto a godere dei doni della fortuna senza divenirne schiavo. Anche se non aggiungo altro, tu capisci che solo da tutto ciò deriva una serenità, o meglio una libertà immune da scosse, una volta che si sia riusciti a rimuovere ogni motivo di irritazione o timore: infatti ai piaceri passeggeri più futili e miserabili, nocivi anche solo a sentirne il profumo a distanza, si sostituisce un’inattaccabile letizia, un profondo senso di gioia e di pace, di grandezza e dolcezza armoniosamente fuse nello spirito: la cattiveria infatti è solo una forma di debolezza.
La calma interiore
È lecito definire il sommo bene uno spirito che disprezza i doni della fortuna e si appaga della virtù, ma si potrebbe anche definirlo la forza incorruttibile dell’anima, esperta, serena nell’agire e ricca di umanità e comprensione nei confronti di chi la circonda. Oppure si potrebbe anche dire così: è felice l’uomo per cui bene e male corrispondono ad animo buono o animo malvagio, l’uomo che coltiva l’onestà e si compiace solo della virtù, che non si lascia né esaltare né deprimere dalle vicende della sorte, che non desidera altro che quanto può procurarsi con le sue forze; l’uomo insomma per il quale il vero piacere è il disprezzo dei piaceri. Se vogliamo, possiamo esporre lo stesso concetto con parole diverse senza alterarne il significato. Ad esempio, nessuno ci impedisce di affermare che la felicità consiste nel possesso di uno spirito libero, retto, intrepido e coerente, immune da inutili paure o desideri, che consideri come unico bene l’onestà e come unico male il disonore, e tutte le cose contingenti che non riguardano il bene un ammasso di inezie che non aggiungono né tolgono nulla alla felicità, che possono indifferentemente esserci o non esserci non avendo nulla a che fare con il sommo bene. A princìpi così solidi corrisponderanno inevitabilmente una serenità perpetua e una gioia profonda, radicata nell’intimo e inalterabile, perché gode di quello che ha e non desidera nulla al di fuori di ciò che la circonda. Non sei convinto che questa calma interiore sia un appagamento profondo, in grado di compensare i moti meschini, frivoli e volubili del nostro misero corpo? Se si è troppo dipendenti dal piacere, si dipenderà anche necessariamente dal dolore: non vedi come è triste e dannosa la schiavitù di chi è sempre preda del piacere e del dolore, capricciosi e temibili tiranni? Bisogna assolutamente trovare il modo di liberarsene, e l’unico mezzo è l’indifferenza di fronte alla sorte: solo mantenendo questo distacco nascerà in noi quel bene inestimabile che è la serenità di uno spirito sicuro e moralmente elevato: sgominato ogni futile terrore, si perverrà alla gioia grande e imperitura che deriva dalla conoscenza del vero, e all’affabile disponibilità di un’anima sempre pronta ad aprirsi al mondo. Questi sono beni non solo momentanei, ma perennemente nostri, in quanto derivati dall’unico bene non effimero, il sommo bene, appunto, che abbiamo saputo riconoscere e conquistare.
La guida della ragione
Dato che sto trattando la questione piuttosto estesamente, aggiungerò che si può considerare felice chi, affidandosi alla guida della ragione, non ha né brame né timori eccessivi. Certo, anche le pietre e le bestie sono prive di timori e di tristezze, però non possiamo definirle felici, giacché manca loro la consapevolezza della propria felicità. Alla stessa stregua vanno considerati gli esseri umani che l’ottusità naturale e l’ignoranza collocano sullo stesso piano delle bestie e delle cose inanimate. Non c’è reale differenza fra gli uni e le altre: le bestie, infatti, non sono provviste del dono della ragione e costoro hanno una ragione per così dire depravata, volta solo al proprio danno e al male: trovandosi in una condizione lontana dalla verità, non possono essere definiti felici.
Felice è dunque soltanto la vita basata senza incertezze o cedimenti sulla rettitudine e la sicurezza del giudizio. Solo così l’anima è da considerarsi pura e libera da ogni male: quando è riuscita a evitare non solo le ferite, ma anche le semplici scalfitture, quando è in grado di mantenersi sempre nella sua posizione e di difenderla anche in caso di sorte contraria e ostile. Quanto poi al piacere, anche se ci blandisce e si insinua in noi da ogni parte, anche se alletta lo spirito di continuo con le sue lusinghe morbose mirando proditoriamente a sedurci, qual è l’uomo, cui rimanga una minima traccia di umanità, che da queste lusinghe si lascerà dominare giorno e notte, dedicandosi solo al corpo e trascurando del tutto lo spirito?
Il sommo piacere
Alcuni sono infelici anche fra i piaceri, anzi proprio a causa dei piaceri: ciò non accadrebbe se il piacere fosse collegato alla virtù, quel piacere di cui spesso la virtù stessa è priva, ma di cui non sente mai il bisogno. Allora, perché ostinarsi a combinare tra loro cose così diverse, anzi opposte l’una all’altra? La virtù è per sua natura elevata, eccelsa, regale, invincibile, inalterabile; il piacere è meschino, servile, debole, effimero: sua sede e domicilio sono luoghi infimi come bettole e lupanari. La virtù trova sue dimore ideali un tempio, il foro, o il senato: è ritta sulle mura, coperta di polvere, accaldata, ha le mani callose, al contrario del piacere, che troverai perlopiù nascosto, amante delle tenebre, o presso i bagni e le terme, nei luoghi che temono i controlli delle autorità, ed è sempre fiacco, snervato, fradicio d’unguenti e di vino, pallido e oscenamente truccato, per non dire imbalsamato. Il sommo bene è immortale, non viene mai meno, non si sazia mai né genera mai rimorsi: un’anima pura non smentisce se stessa né si odia, non cambia mai la propria condizione, che è la migliore; il piacere invece cessa quando raggiunge il suo culmine e dura comunque poco, compie ben presto il suo tragitto e subito, esaurendosi dopo il primo slancio, lascia il posto al tedio. Ciò che per natura è in movimento non può conoscere la stasi; né può esserci vera consistenza in ciò che viene e va, destinato a esaurirsi e ad autoconsumarsi: quando si conclude giunge al suo fine, e mentre inizia ha lo sguardo già volto al suo termine.
Dunque la vera felicità non può fondarsi che sulla virtù.
E che cosa ci consiglia la virtù? Di non considerare bene se non ciò che sia effetto di virtù e, parimenti, di considerare male tutto ciò che è effetto di perversità. Di essere saldi contro il male e altrettanto saldi a favore del bene, per riproporre qui sulla terra, nei limiti del possibile, l’immagine della divinità.
E cosa ti promette la virtù in cambio di questo impegno? Privilegi supremi, simili a quelli divini: nessuna dipendenza, nessuna costrizione; assoluta libertà, sicurezza interiore, inviolabilità; nulla di ciò che tenterai sarà invano, nulla potrà ostacolarti, tutto riuscirà secondo quanto avrai previsto: nulla potrà danneggiarti o coglierti di sorpresa, nulla intaccare la tua volontà.
Dunque la virtù basta per vivere felici?
Certo. Così perfetta e divina, come potrebbe non bastare, anzi non essere più che sufficiente? Dimmi, che cosa manca a chi sa liberarsi da ogni desiderio? Che cosa occorre dall’esterno a chi ha già tutto in sé?
È vero che chi tende alla virtù, per quanti progressi abbia fatto, ha bisogno anche di un po’ di fortuna, perché non è facile lottare di continuo, invischiati nelle insidie delle vicende umane, per riuscire a sciogliere ogni nodo dei legami mortali.
Qual è infine la differenza?
Che alcuni sono parzialmente legati, altri incatenati se non addirittura immobilizzati; solo chi è salito verso una sfera superiore e si è sollevato più in alto ha la catena più allentata: non si può ancora definire libero, ma se persiste nella sua ascesa lo diventerà.
Il sapiente e il denaro. Nessun obbligo di povertà
Non è il caso di negare ai filosofi il denaro: non esiste una legge che condanni la sapienza alla povertà. Il filosofo potrà benissimo avere tutte le ricchezze che vuole, purché non abbia rubato o non se le sia procurate provocando la morte di qualcuno, purché insomma le abbia acquistate senza raggiri disonesti; se le sostanze hanno una provenienza onesta e un onesto impiego e non fanno torto a nessuno, tranne ai soliti invidiosi, non c’è motivo di contestarle a chiunque ne sia fornito, nella quantità che desidera. Sono proprietà legittime; pur essendovi tra loro molte cose che ognuno vorrebbe dire sue, non c’è nulla che un altro potrebbe definire di sua proprietà. Il filosofo dunque non disdegni l’eventuale prodigalità della sorte nei suoi confronti: di un patrimonio acquisito in modi retti e decorosi non dovrà né vantarsi né vergognarsi. O meglio, potrà anche vantarsene se, aprendo le porte di casa sua e facendo entrare chiunque, sarà in grado di dire: "Ciascuno prenda ciò che riconosce suo". Chi, dopo un simile invito, si ritroverà con tutto quello che aveva prima, potrà veramente a buon diritto definirsi uomo retto, nobile e ricco. Se, infatti, potrà permettere con tranquillità a chiunque voglia farla un’indagine di tal genere, se nessuno troverà in casa sua nulla su cui poter mettere le mani, è giusto che si ritenga fiero della sua ricchezza davanti a tutti. Il sapiente non deve permettere che neppure un soldo di provenienza dubbia varchi la soglia di casa sua; ma nello stesso tempo troverà assurdo rifiutare le ricchezze e i doni della fortuna di cui gli sarà possibile godere virtuosamente; perché non accoglierli festosamente e con animo grato? Vengano pure, li ospiteremo volentieri. Se siamo saggi, non ne faremo né vanto né mistero: il primo atteggiamento è da sciocchi, il secondo da avidi, da meschini che vogliono tenere un bene solo per sé e vi si avvinghiano come miserabili. In ogni caso, non cacciamo le ricchezze da casa nostra. Avremmo forse il coraggio di dire che le troviamo inutili? O che non sappiamo giovarcene? Certo, è possibile fare un viaggio a piedi, ma non è preferibile salire su un veicolo? Così, se da povero potrà diventare ricco, anche il sapiente ne sarà giustamente lieto. L’importante è che consideri queste sue ricchezze non un bene stabile, ma sempre soggetto alla mutevolezza della sorte, che potrà svanire da un momento all’altro; la ricchezza non sarà mai un peso né per lui né per gli altri. E, soprattutto, sarà sempre disposto a donare... Perché drizzate le orecchie? Perché aprite le borse? Intendo dire che il sapiente donerà ai meritevoli, a quelli buoni o che potrà rendere buoni; sceglierà i più degni, valutando con molta attenzione; non dimenticherà mai che si deve rendere conto sia di ciò che si dà sia di ciò che si riceve; donerà per motivi ragionevoli e apprezzabili, giacché un dono inopportuno è una forma di sperpero riprovevole. È buona cosa avere la borsa sempre aperta, ma non le mani bucate: in modo che molto esca, per essere giustamente impiegato, ma nulla scivoli fuori a caso.
In casa del sapiente le ricchezze si trovano nella condizione di schiave; in casa dello stolto invece la fanno da padrone. Il saggio non concede nulla alla ricchezza, agli stolti la ricchezza concede tutto; questi ultimi si abituano e si attaccano alla ricchezza come se qualcuno avesse loro assicurato un possesso eterno di quei beni effimeri; il saggio, al contrario, ha il pensiero rivolto alla povertà proprio quando si trova nel benessere. Un comandante non confida mai nella pace a tal punto da risultare impreparato a una guerra – una guerra che, anche se non è in atto, è però come se fosse già dichiarata –, c’è invece chi resta a bocca aperta, estasiato di fronte a una villa, e se ne sente orgoglioso, come se non fosse anch’essa un bene soggetto a inevitabile deperimento, come se non potesse mai bruciare né crollare: quasi che le ricchezze fossero immuni da pericoli e non potessero essere distrutte da una sorte avversa. C’è chi gioca del tutto spensierato con le ricchezze, e non ne considera mai i rischi: gente del genere mi fa venire alla mente i barbari assediati, ignari delle macchine da guerra, che osservano passivi lo sforzo di chi li assedia senza capire a cosa servano quelle macchine che vengono costruite lontano da loro. Così capita anche a molti, che marciscono in mezzo a troppi agi e non tengono conto di quante insidie e pericoli incombono da ogni parte e potrebbero distruggere il prezioso bottino. Chiunque deruberà il saggio delle sue ricchezze in realtà non gli toglierà nulla di essenziale: egli vive lieto del presente, e immune da preoccupazioni per il futuro.
L’incoerenza causa di sciagura
"Questo voi non capite" dice il grande Socrate, "che il vostro atteggiamento non è coerente con la vostra situazione: siete come quelli che si divertono al circo o a teatro, ignari del fatto che la loro casa è stata colpita da una disgrazia. Io invece, guardando dall’alto, sono in grado di vedere quali tempeste incombano e stiano per abbattersi su di voi, già vicine, in procinto di travolgere voi e tutto ciò che è vostro. Che dico? Anche in questo momento, benché voi non ve ne accorgiate minimamente, non c’è già un ciclone che trascina vorticosamente le vostre anime, che corrono sempre qua e là alla ricerca delle stesse cose, ora sollevandosi verso l’alto, ora precipitando in un abisso?"
Diventa signore di te stesso
Fa’ come ti dico, mio Lucilio, diventa signore di te stesso, e riserva a te stesso il tempo che finora ti veniva sottratto, o andava perduto. Convinciti della verità di ciò che ti dico: le nostre ore ci vengono rubate talvolta con la forza, talvolta con l’astuzia, per non dire di quante scorrono via senza che nemmeno ce ne accorgiamo.
Sicuramente la perdita di tempo di cui dobbiamo vergognarci maggiormente è quella imputabile alla nostra negligenza. Se rifletti bene, devi ammettere che la maggior parte della vita si consuma e fugge via nel compiere azioni non buone, gran parte nel non fare nulla, e tutta quanta nel fare altro rispetto a quello che dovremmo fare.
Puoi indicarmi l’esempio di qualcuno che sappia attribuire al tempo tutto il suo valore, che apprezzi adeguatamente la sua giornata e si renda conto della semplice verità che anche lui, come ogni essere vivente, sta morendo giorno dopo giorno?
È questo un errore molto diffuso: noi guardiamo alla morte come a un evento situato davanti a noi, nell’avvenire: in realtà essa si trova in grande misura alle nostre spalle e tiene in suo potere il nostro passato.
Vorrei che davvero ti comportassi come mi scrivi, dando un qualche proficuo impiego a tutte le tue ore. Ti troverai a dipendere meno dal domani se avrai fatto buon uso dell’oggi. Pensa che mentre noi rinviamo i nostri doveri, la vita non smette di trascorrere. Di nulla siamo padroni, caro Lucilio, solo il tempo ci appartiene. La natura ci ha donato il possesso di questa sola proprietà, fuggente e instabile; eppure, chiunque vuole ce la può togliere. È tale la stoltezza degli uomini che volentieri accettano che venga loro addebitato l’acquisto di cose anche minime senza valore e facilmente sostituibili, mentre nessuno si sente in debito se ha sottratto ad altri il tempo, ovvero quel valore che anche col massimo della riconoscenza possibile non si può restituire.
A questo punto potrebbe venirti spontaneo domandarmi come mi comporto io che sto dando a te questi precetti. Ebbene, te lo confesso in tutta sincerità: posso paragonarmi a un uomo amante della ricchezza e del lusso che però non perde a causa di questo amore il suo senso critico nei confronti dei veri valori e rende sempre conto delle spese che ha fatto: non potrei dire di non perdere mai assolutamente nulla, ma sono sempre in grado di dichiarare che cosa, perché e come abbia perduto, insomma sono del tutto consapevole delle cause della mia povertà. Mi accade ciò che suole accadere alla maggior parte di quelli che sono caduti in miseria ma non per colpa loro: tutti sono pronti a compatirli, nessuno ad aiutarli veramente.
Che dire insomma per concludere?
Riassumerò il mio pensiero nel modo che segue: io non considero povero un individuo al quale rimangano solo poche sostanze, dal momento che, se si è dotati di un minimo di moderazione, anche il poco può bastare; trovo però meglio custodire ciò che si possiede e incominciare a farlo in tempo utile: infatti, la parsimonia tardiva, come già osservarono i nostri antenati, ci fa cadere giù in fondo: e giù in fondo rimane non solo il meno ma anche il peggio.
Addio, mio caro, e stammi bene.
Anche la vecchiaia ha le sue gioie
Dovunque io volga lo sguardo, vedo segni della mia vecchiaia.
Ti porto subito un esempio: ero andato nella mia villa di campagna e mi lamentavo delle spese necessarie per la casa ormai fatiscente. Il fattore mi dice che non è colpa sua, lui ricorre a ogni cura possibile per evitare il processo di deperimento dell’edificio, il fatto è che la villa è vecchia.
Io non posso fare a meno di ricordare che questa villa è nata e cresciuta con me: quindi, cosa accadrà della mia persona, se sono già così sgretolati questi sassi che hanno la mia età?
Intimamente irritato, finisco per prendermela con lui: "È evidente che questi platani non sono stati curati come occorreva: non hanno fronde. I rami sono troppo secchi e pieni di nodi, i tronchi tristi e ruvidi. Tutto questo non accadrebbe se qualcuno provvedesse a scavare intorno per bene e a irrigare come si deve".
Lui giura in nome del mio demone protettore che ha sempre fatto tutto il possibile, non cessando mai di prodigare agli alberi ogni cura; il fatto è che sono alberi vecchi, molto vecchi.
Ebbene, non dirlo a nessuno, ma ero stato io a piantare quei platani, di cui avevo visto con gioia le prime foglie.
Mi volgo verso la porta e non riesco a trattenere un’astiosa domanda: "Chi è questo vecchio decrepito che a buon diritto sta impalato sull’uscio e guarda fuori? Dove l’hai trovato? Che gusto ci provi ad addossarti un cadavere estraneo alla casa?".
"Ma come, non mi riconosci?" mi interrompe l’anziano individuo, "io sono Felicione, il figlio del castaldo Filosito, il ragazzo che ti piaceva tanto, a cui regalavi le figurine di cera alle feste sigillari."
Ecco la mia risposta: "Costui sta delirando: ora pretende di essere il mio cucciolo, il mio amatissimo pupillo? Ma se gli stanno cadendo i denti!".
Sono debitore anche di questo alla mia villa: che all’interno e all’esterno di essa da qualunque parte mi volgessi mi si presentava la realtà della mia vecchiaia.
Abbracciamola e amiamola, dunque, questa nostra dimora: sì, la vecchiaia, e scopriremo che, se sappiamo farne buon uso, è ricca di molte gioie. I frutti sono più dolci quanto più sono rari. Il fiore della fanciullezza è più apprezzabile al suo declino; a un bevitore riesce particolarmente gustoso l’ultimo sorso di vino, quello che provoca il trionfo dell’ebbrezza in cui è bello naufragare. Ogni piacere raggiunge il suo apice proprio nel momento in cui sta per finire. L’età più lieta è quella che è ancora al suo termine estremo ma ha già dietro di sé un bel tratto di cammino; ma, pensandoci bene, anche quello che rappresenta il termine estremo deve avere i suoi piaceri, o perlomeno il grande vantaggio di non sentire più, dei piaceri, alcun bisogno. Che squisita dolcezza sentire d’aver consumato fino in fondo, e quindi eliminato, qualsiasi desiderio!
A questo punto potresti fare un’obiezione:
"Non potrai però negare che dev’essere molesto avere dinnanzi agli occhi la morte."
Bene, io ti rispondo anzitutto che la morte deve stare avanti agli occhi sia del vecchio che del giovane, in quanto non siamo chiamati a lei in base a una graduatoria di ruoli. E a questo proposito, è il caso di aggiungere che nessuno si può ritenere tanto vecchio da non avere il diritto di sperare in un ulteriore giorno di vita.
Anche un solo giorno rappresenta un periodo di vita. Il corso di un’esistenza consta di varie parti: si tratta per così dire di una serie di cerchi maggiori posti intorno ad altri cerchi via via più piccoli: ce n’è uno che li abbraccia e li circonda tutti, e va dal giorno della nascita a quello della morte. C’è un altro cerchio, poi, che esclude gli anni dell’adolescenza, e quello che avvolge l’età della fanciullezza. L’anno, come sai, contiene tutte le stagioni, le quali nel loro moltiplicarsi compongono la vita. Il mese è chiuso in un cerchio più stretto, e uno ancor più ristretto è infine quello del giorno, che ha anch’esso un principio e una fine, dall’alba al tramonto del sole. Perciò Eraclito, giustamente definito "l’oscuro", sostiene che "un giorno è uguale a tutti". Frase che è stata interpretata in vari sensi: c’è chi pensa che si riferisca alle ore che compongono il giorno, e in questo l’affermazione risulta certamente attendibile, giacché ogni giorno è sempre di ventiquattr’ore e tutti i giorni sono uguali anche nelle diverse stagioni perché la notte guadagna quel che perde il periodo di luce. Secondo un’altra interpretazione, Eraclito vorrebbe dire che ogni giorno è uguale all’altro perché tutti si assomigliano: in ciascun giorno è possibile trovare quanto si trova in un lunghissimo lasso di tempo, l’alternarsi di luce e tenebre e tutte le molteplici vicissitudini e i processi evolutivi del cosmo nel corso delle notti, più o meno lunghe a seconda dei vari momenti dell’anno. Pertanto ci conviene regolare ogni nostra giornata come se fosse l’ultima...
Se Dio ci vorrà concedere un giorno in più, quello di domani, saremo molto lieti e riconoscenti di questo dono.
È veramente felice e signore di se stesso solo colui che aspetta l’indomani senza inutili ansie: chi la sera prima ha detto: "Ho vissuto" e si leva al mattino per godersi la nuova giornata come qualcosa in più, come un meritato dolcissimo premio.
Una pericolosa attitudine: la "libido moriendi"
La verità è che moriamo ogni giorno. Giorno dopo giorno ci viene tolta una parte di vita: man mano che cresciamo, la vita diminuisce.
Abbiamo perso l’infanzia, poi l’adolescenza, poi ancora la giovinezza. Tutto il tempo trascorso fino a ieri è irrimediabilmente perduto: l’oggi che stiamo vivendo lo stiamo condividendo con la morte. Non è soltanto l’ultima goccia che esaurisce la clessidra, ma tutte le gocce scorse prima; non è l’ultima ora, quella in cui cessiamo di esistere, a procurarci la morte, ma la somma di tutte le ore precedentemente vissute: l’ora suprema porta la morte a compimento, giacché in quell’ora la raggiungiamo, ma il cammino dura già da molto tempo.
L’uomo saggio e coraggioso non deve fuggire dalla vita, deve semplicemente uscirne.
È più che mai da evitare l’atteggiamento psicologico che purtroppo si è impossessato di molti negli ultimi tempi: il desiderio di morire. Mio caro Lucilio, nei confronti della morte come di tante altre cose può sorgere nel nostro animo una brama inconsulta che assoggetta a sé sia uomini di nobile ingegno e indole combattiva sia individui vili e inetti: i primi giungono a disprezzare la vita, i secondi a sentirla come un peso intollerabile.
C’è chi viene sopraffatto da una sorta di stanchezza e non sopporta più di fare e vedere sempre le stesse cose: più che di odio, si tratta di un disgusto della vita, e possiamo cadere vittime di questo malessere esistenziale anche per influsso della filosofia, ad esempio quando ci viene da chiederci: "Per quanto tempo ancora le stesse cose? Dormire, svegliarsi, sentir fame, freddo o caldo... Nulla sembra aver fine, tutte le cose che ci circondano in questo mondo sono connesse fra loro in un ciclo di immutabile regolarità, si dissolvono solo per riprodursi: il giorno è incalzato dalla notte, la notte dal giorno, l’estate sfuma nell’autunno, l’autunno è inseguito dall’inverno, quest’ultimo è sconfitto dalla primavera. Tutto passa e ritorna. Nulla di nuovo faccio, nulla di nuovo vedo. Si può provare nausea anche di questa continua monotona ripetitività".
Sono più di quanto si possa credere quelli che giudicano il vivere non un’esperienza dolorosa, ma assolutamente inutile.
L’atteggiamento equilibrato nei confronti della morte
Smettiamola di volere ciò che abbiamo già voluto in passato.
Io cerco di addestrarmi a imparare anche questo: a non desiderare più da vecchio le cose che desideravo da ragazzo. È un cammino di perfezionamento interiore che m’impongo ogni giorno e ogni notte, e non solo vi dedico il mio pensiero, ma cerco di comportarmi sempre attenendomi all’unico proposito di porre fine ai vizi di un tempo.
Faccio di tutto perché ogni giorno possa essere modello di un’intera vita.
Non sto dicendo che afferro quel giorno e ne voglio godere smaniosamente come se fosse l’ultimo giorno della mia esistenza, ma prendo in considerazione l’ipotesi che potrebbe essere l’ultimo.
Mentre ti scrivo questa lettera tengo presente questa possibilità, che la morte potrebbe chiamarmi a sé prima di aver terminato di scriverti; ma sono pronto a lasciare la vita, e proprio per questo la godo a fondo, perché non mi preoccupo di quanto sia ancora lontano quel momento.
Prima di varcare la soglia della vecchiaia mi preoccupavo di vivere bene, ora che quella soglia l’ho varcata, penso a morire bene: e morire bene equivale ad accettare la fine della vita lietamente, senza traccia di rammarico.
Cerca di non fare mai qualcosa controvoglia. Se opponi resistenza a qualcosa d’inevitabile soffrirai di più che se l’accetti di buon grado. Chi accetta serenamente un comando, evita ciò che vi è di più doloroso nella servitù: l’esser costretti a fare quel che non si vuol fare. Non è infelice chi fa qualcosa perché gli viene imposto, ma chi la fa controvoglia.
Dobbiamo educare il nostro spirito a imparare questo: a volere tutto ciò che la realtà esige, e soprattutto a pensare senza tristezza né angoscia alla nostra fine.
Più ancora che alla vita bisogna prepararsi alla morte. La vita è provvista in misura sufficiente di tutto, ma noi non ci saziamo mai; abbiamo sempre la sensazione che ci manchi qualcosa.
Aver vissuto abbastanza non dipende dal numero degli anni, o dei giorni, ma dal modo in cui il nostro animo ha vissuto quegli anni e quei giorni.
Per ciò che mi riguarda, carissimo Lucilio, ho vissuto quanto poteva bastarmi. Ora sono sazio e aspetto serenamente la fine.
Addio.